Alla Costituzione ha dedicato tutto il suo interesse scientifico, anche la sua passione. Roberta Calvano insegna Diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza, ma il suo impegno non si ferma qui: è componente del comitato scientifico delle riviste Giurisprudenza costituzionale e Democrazia e diritto e del collegio dei docenti del dottorato di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza. È autrice di una monografia sulla Corte di giustizia e la Costituzione europea e di due volumi su scuola e Costituzione e su legge e università pubblica, nonché di numerosi saggi e contributi sui problemi costituzionali dell'integrazione europea, i diritti fondamentali, la giustizia costituzionale, i partiti e il regionalismo. È stata componente della commissione di studio sul regionalismo differenziato nominata dal ministro degli Affari regionali nel corso della XVIII legislatura ed è stata ascoltata dalle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato più volte negli ultimi mesi, nel corso dell’iter di approvazione dei progetti di riforma sul Premierato e sul Regionalismo differenziato.

Roberta Calvano la si può incontrare anche nelle piazze e nei luoghi dove la Costituzione la si difende chiedendo e impegnandosi affinché venga prima di tutto attuata. La parte che prende è sempre quell’analisi e della riflessione scientifica in punta di diritto. Ci spiega perché insieme a decine di colleghi e colleghe ha sottoscritto un documento che riprende e sostiene l’intervento della senatrice Liliana Segre contro il premierato.

Professoressa lei è tra gli ormai oltre 200 costituzionaliste e costituzionalisti firmatari di un documento a sostegno dell'intervento della senatrice Segre. Perché questo documento?

La senatrice, con parole molto chiare, è riuscita a cogliere i tratti fondamentali delle critiche che nei lunghi mesi di lavoro in commissione Affari costituzionali al Senato molti costituzionalisti hanno sottoposto all’attenzione dei senatori e del governo, inascoltati. La senatrice Segre è riuscita a esprimere con pacatezza ed equilibrio in modo sintetico le critiche che avevamo tutti condiviso.

Quali sono, allora, i punti della riforma costituzionale che più la preoccupano e perché?

Innanzitutto, gli obiettivi che il legislatore si era posto con questa modifica della Costituzione vengono completamente mancati. Si dichiara di perseguire l’intento di rafforzare la stabilità del governo – nessuno nega che nella storia repubblicana questo sia un problema –, così come il disegno di legge si prefigge l'obiettivo di chiarire meglio agli elettori la dialettica politico-parlamentare mettendo un argine al fenomeno dell'astensionismo. Ma nessuno di questi due obiettivi potrà essere raggiunto con il premierato. Non sarà garantita la stabilità visto che ribaltoni e cambi di maggioranza rimangono possibili. Si dice che il presidente del Consiglio sarà eletto direttamente dai cittadini per cinque anni, ma nonostante questa affermazione il Ddl prevede poi la possibilità delle crisi in corso di legislatura, quindi che il presidente del Consiglio possa essere sfiduciato e poi possa avere un nuovo incarico, ma nulla impedisce al presidente eletto di fare quello che si è fatto fin qui, giungendo a un eventuale cambio di maggioranza. Insomma il cambio di maggioranza avvenuto tra Conte 1 e Conte 2 continuerà a essere possibile. E quindi anche l’ipotesi che si contrasti l’astensionismo attraverso la stabilità e la coerenza tra espressione del voto e maggioranze parlamentari non trova fondamento. Peraltro, la mancata stabilità non attiene alle modalità di elezione del presidente del Consiglio, le crisi derivano dall’instabilità del quadro politico che è molto frammentato e ideologizzato, ma questo è un problema che non deriva dalle norme costituzionali e non è con queste riforme che lo si può affrontare, rendendo la Costituzione una sorta di capro espiatorio per ciò che non funziona nel sistema politico. In realtà questo problema andrebbe affrontato con una legge sui partiti, sulla democrazia interna, sul finanziamento della politica, sul sistema elettorale.

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Questi i mancati obiettivi, quali i pericoli?

La blindatura della forma di governo per cercare di renderla più stabile produce un effetto molto negativo sui rapporti tra i vari poteri e sugli equilibri fra i vari organi costituzionali. In particolare con il premierato si introduce una sostanziale dipendenza del Parlamento rispetto al governo, Camera e Senato verrebbero elette al traino del premier. Infatti, la riforma prevede che le liste o la lista collegate al premier eletto godano di un premio di maggioranza che per ora non viene quantificato, dipenderà dal voto per il premier. Si rinvia alla legge elettorale la quantificazione del premio che però viene costituzionalizzato e che dipende non dal voto per le camere, ma  si aggancia – come dicevo – al candidato premier vincente. Questo comporterà il paradosso per cui uno schieramento che consegua meno voti nelle elezioni per le camere, magari anche un risultato percentuale molto ridotto, ma ottenga per il proprio candidato premier un numero di voti superiore, arriverà ad avere la maggioranza dei seggi trascinato dal premio di maggioranza portato in dote dal candidato premier vincente. Il Parlamento, quindi, non potrebbe più essere considerato un’istituzione a elezione diretta, e per di più non sappiamo nemmeno quale sarà la legge elettorale e nemmeno quale dovrà essere la soglia minima per aver attribuito il premio di maggioranza. Si avrebbe, quindi, un Parlamento sempre più subalterno al governo e parlamentari la cui elezione sarebbe dovuta non agli elettori ma al premier. Infine lo scioglimento anticipato sarebbe nelle mani del premier, mentre verrebbero significativamente ridotti i poteri del Presidente della Repubblica.

La Camera ha approvato definitivamente l'autonomia differenziata, premierato più autonomia differenziata più eventuale riforma della magistratura: che paese uscirebbe da queste riforme?

L'effetto combinato del regionalismo differenziato e del premierato a me sembra non possa che stravolgere complessivamente non solo la forma di governo, ma anche la forma di Stato. Si stravolgerebbe cioè il modo in cui si configura il rapporto tra governanti e governati, il rapporto tra potere e diritti fondamentali. Il regionalismo differenziato avrà non soltanto effetto su tanti ambiti del rapporto tra i cittadini e pubbliche amministrazioni, enti territoriali e garanzia dei diritti sociali, ma anche in tanti altri settori. Contemporaneamente si assiste alla verticalizzazione della forma di governo che diminuisce di molto lo spazio per la rappresentanza politica, che già oggi è in forte difficoltà. Il regionalismo differenziato rischia di approfondire i divari territoriali e le diseguaglianze, la verticalizzazione indotta dal premierato di accentrare le decisioni in pochissime mani. Si può ritenere che i presidenti delle regioni e il presidente del Consiglio monopolizzerebbero la decisione sulle risorse da attribuire alle varie regioni, secondo logiche sempre più svincolate da parametri prestabiliti. Quella delle risorse, sappiamo, è la vera questione sottostante alla riforma dell'Autonomia differenziata.

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La questione delle risorse rimanda ai livelli essenziali delle prestazioni, che come si sa non sono stati definiti, mentre la legge dice che sarà applicata ad invarianza finanziaria.

Cioè senza oneri per lo stato: come può – allora – un'operazione come il trasferimento di importantissime funzioni a tutte le Regioni che vengono a chiederle al governo non avere effetti sul bilancio dello Stato? Questo è veramente misterioso; poi c'è il problema che con legge ordinaria si va a scardinare il sistema del riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni disegnato nell'articolo 117. È vero che ciò è previsto nell'articolo 116, comma 3, così come riformato con il Titolo V approvato dal Centro-sinistra nel 2001, ove è stata inserita la norma che prevede la possibilità della differenziazione poi rimasta inattuata per tanti anni. Tuttavia si può segnalare come sia possibile dare un’attuazione diversa di quella norma, che si innesti meglio nel quadro dei rapporti tra Stato ed enti territoriali, evitando di approfondire ulteriormente i divari molto gravi già esistenti.

Quale sarebbe stata secondo lei la modalità più coerente con la Costituzione?

Innanzitutto va premesso che il 116 terzo comma fu già molto duramente criticato all'epoca da Leopoldo Elia, uno studioso che aveva posizioni assai moderate. Elia sosteneva che questa norma portava con sé una sorta di germe di dissoluzione dell'unità nazionale. È bene ricordare che vi è la possibilità che nel riformare la Carta si scrivano norme costituzionali incostituzionali, e quella del 2001 anche secondo me lo è. Se proprio si voleva dare attuazione al 116, viste le spinte che arrivavano da alcuni territori e non solo, si sarebbe potuto e dovuto farlo con una legge costituzionale e non con una legge ordinaria. Poi si potevano individuare dei limiti per circoscrivere maggiormente il processo di attribuzione delle funzioni e delle competenze in determinati ambiti particolarmente caratterizzanti la singola Regione, oltre che a tutela dell’unità nazionale (si pensi solo al ruolo cruciale dell’istruzione per la costruzione della cittadinanza). E soprattutto si sarebbe potuto e dovuto individuare una copertura economica in grado di affrontare la questione dei divari. Nonostante tutte le osservazioni critiche che sono state fatte al disegno Calderoli, anche da organismi indipendenti come l'Ufficio parlamentare di bilancio che ha espresso delle valutazioni molto molto preoccupate sull'impatto finanziario di questa legge, così come Banca d'Italia, che certo non può essere ritenuta un'istituzione partigiana, la maggioranza ha ritenuto di procedere molto velocemente ad approvare questa legge, che tuttavia rischia di produrre effetti molto negativi sull’economia italiana oltre che sulla garanzia dei diritti dei cittadini. Un supplemento di riflessione sarebbe stato quindi più che auspicabile.

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