Questo reportage fa parte di Collettiva Academy, il progetto di collaborazione tra la redazione di Collettiva e gli studenti del corso di laurea in Media, comunicazione digitale e giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma. Gli autori sono studenti che hanno partecipato al nostro laboratorio di giornalismo narrativo.


Uno scatto verticale immortala il Monumento all’Indipendenza di Kiev sotto un grigio cielo invernale. La scelta del verbo è forse paradossale, considerato che la Storia di Instagram che Marina ha appena pubblicato scomparirà tra sole ventiquattro ore, ma il soggetto ritratto non necessita di essere reso eterno dai mezzi della tecnica: ha già ampiamente superato la prova del tempo.

La colonna che domina la piazza centrale della città sorregge infatti la statua di una divinità pagana di origine precristiana: la Berehynia, la cui antichissima immagine è stata riconfigurata dall’Ucraina post-sovietica in quella di “madre della Nazione”. Tiene tra le mani un ramo di viburno, il kalyna, elemento della tradizionale cultura popolare, e raffigura la perfetta donna ucraina, spirito della casa e madre ideale, il cui compito è quello di preservare l’identità dello Stato di cui è divenuta simbolo.

Marina è una migrante ucraina di quarantatré anni, ama scattare fotografie e ha un sorriso malinconico, ma dolce, sempre impresso sul volto. Il suo profilo Instagram rispecchia questo suo animo: è un mosaico dalle tinte pastello che ritrae fiori, cieli al tramonto e scorci delle città europee in cui ha vissuto di recente. Le sue storie fanno altrettanto. Durante questi giorni raccontano il ritorno nel suo Paese, dove resterà brevemente per festeggiare il Natale insieme al marito e ai cinque figli, prima di partire nuovamente per Glasgow, dove vive adesso.

Gli spostamenti di Marina non sono un caso isolato. Dopo il 24 febbraio 2022, racconta lei, “almeno un terzo degli abitanti, tra i miei amici e i compagni di classe dei miei figli, si è trasferito in un altro paese, ma quest’anno molti di loro sono tornati”. I dati di fine 2023 contano però ancora 6.4 milioni di rifugiati e richiedenti asilo ucraini, di cui il 47% donne e il 33% bambini, contro i 5.7 milioni di fine 2022. L’invasione russa ha dunque dato avvio a un fenomeno migratorio strettamente correlato alla dimensione di genere, le cui radici, però, sembrano affondare in un terreno ben più fertile di quello delle trincee.

Viaggio come atto di resistenza

“Quando la guerra è iniziata eravamo molto spaventati, ma un mese dopo noi madri abbiamo ricevuto un’offerta dal comune per trasferirci in Italia grazie alla comunità di Sant’Egidio” dice Marina. Obuchiv, la sua città, si trova a trenta chilometri a sud da Kiev; è da qui che parte con i suoi cinque figli a bordo di un autobus, a marzo del 2022, in compagnia di altre mamme e bambini.

“Volevano salvare le loro figlie” racconta Valentina, un’operatrice della Comunità. “I maschi sopra i diciassette anni rimanevano là con i loro padri e molto spesso hanno lasciato lì le nonne e i nonni perché sono molto attaccati alla loro terra, in senso fisico”. “Mio marito non è venuto con noi perché ha una piccola attività. Doveva rimanere con i nostri genitori, badare alla casa e ai nostri cani e gatti” conferma Marina. “Speravamo di poter tornare presto, quindi abbiamo deciso che avrei portato i nostri figli in un posto sicuro”.

Le donne ucraine sono abituate a discorsi simili. Dopo l’indipendenza, ottenuta dall’Ucraina nel 1991, e il conseguente aumento del costo della vita, hanno cominciato a partire da sole per cercare lavoro, acquisendo il ruolo di capofamiglia e tentando di massimizzare i loro guadagni all’estero con l’obiettivo di rientrare a casa il più rapidamente possibile. Prima della guerra, nel 2021, le donne costituivano il 77,4% della comunità ucraina italiana, di queste, il 63,6% risultava occupato. La responsabilità di portare in salvo interi nuclei familiari, adesso, ricade dunque su quelle stesse donne che da decenni contribuiscono, con tanti sacrifici, a sostenere l’economia del proprio Paese.

Il pullman attraversa la Polonia e dopo quattro giorni di viaggio arriva a Roma, dove le famiglie vengono distribuite. Marina viene collocata nel monastero delle Suore Francescane di Grottaferrata, una cittadina dei castelli romani, con i figli e altre trentuno persone: è l’inizio di una convivenza che, a discapito delle aspettative, durerà per lei quattro mesi e per altri quasi due anni.

L’aiuto e la cura nella comunità

La statua della Berehynia non viene colpita dai missili russi durante la guerra. La “Madonna Domestica” continua, imperterrita, a guardare dall’alto i suoi figli attraversare Piazza Indipendenza, vegliando su di loro. Marina, ora che è arrivata in Italia, la vede tutti i giorni; controllare le notizie su quello che accade a Kiev è la prima cosa che fa dopo essersi svegliata, prima ancora di far alzare i suoi bambini dal letto.

Il clima è comunque relativamente sereno: le famiglie, adesso, sanno di essere al sicuro. Natalia P., un’altra donna ucraina di quarantatré anni, è al monastero con la figlia Carolina, che invece ne ha quattordici. La prima cosa che chiede è un frigorifero più grande e si presta sin da subito per aiutare gli operatori a fare la spesa e per gestire la dispensa. Le ucraine, difatti, si dimostrano più che volenterose nel sostenersi vicendevolmente; non solo si alternano nel cucinare i pasti, ma quando sia loro che i propri figli cominciano a frequentare i corsi e le scuole italiane si assistono nel portarli o nell’andare a prenderli e nello svolgere gli esercizi.

Hanno fatto molta comunità - commenta Valentina -. È stato davvero bello” racconta Marina, con gli occhi gioiosi e nostalgici. “Vivevamo tutti insieme, ci aiutavamo e c’era davvero una bella atmosfera, anche grazie alle persone italiane che sono fantastiche. Ci hanno portato a visitare Roma e altre città”. Le foto dei monumenti sono numerose sul suo profilo Instagram e comunicano un etereo senso di pace, per metà raggiunto e per metà, forse, ancora ricercato.

Il paradosso del lavoro

“Ogni settimana era improvvisata, mamma si divideva tra lavoro e scuola” dice Carolina. Nonostante Natalia sia avvocato, infatti, si ritrova a fare la badante, ma non è l’unica. “Chi cercava un lavoro faceva la cameriera, la lavapiatti, la donna delle pulizie, la dama da compagnia” racconta Valentina. Chi possiede qualifiche è più reticente, ma i titoli di studio ucraini non valgono molto in Italia. L’unica eccezione è Imna, che è infermiera e viene subito assunta in una Rsa.

Lavorare è fondamentale per le donne ucraine. Natalia K., una donna di quarant’anni proveniente da Sumy e fuggita a Brescia nel 2022, sostiene che “le donne italiane e ucraine hanno mentalità diverse: quelle ucraine sono ostinate lavoratrici e sono molto responsabili”. Come è possibile notare, però, le mansioni che vengono loro offerte al di fuori del loro Paese sono umili o confinate a settori di cura. Le donne ucraine sono abituate anche a questo: nel 2021 il 50% di coloro che erano già in Italia era una colf, mentre il 20% lavorava nel commercio o nella ristorazione. Quando Marina decide a malincuore di fare le valigie e trasferirsi con i suoi figli a Glasgow, in Scozia, per aiutarli con la lingua, accetta un lavoro come social media manager, sette ore a settimana, nonostante sia laureata come interprete ucraino-cinese.

La dedizione al lavoro è dunque prima di tutto un bisogno, se non un dovere, per queste donne, ma deve riuscire a coincidere anche con l’arcaico archetipo di madre che esse incarnano. L’Ucraina ha costruito l’identità e la forza della donna su antichi ideali di femminilità, quali la maternità, l’attaccamento ai valori familiari e la capacità di nutrire, attribuendogli un apparente potere di emancipazione.

Quando a fine 2022 Natalia P. si sposta in Polonia, però, per potersi riavvicinare a casa, e quando Natalia K. torna definitivamente a Sumy, la migrazione sembra perdere la sua capacità di esprimere autodeterminazione e libertà soggettiva. Quando Marina si ritrova a Kiev, davanti alla Berehynia, sa di aver salvato i suoi figli, portato soldi a casa e di aver aiutato la sua Nazione, ma non capisce se è stata davvero lei a farlo; allora preme il pulsante e sorride. Scatta un autoritratto.