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Questo reportage fa parte di Collettiva Academy, il progetto di collaborazione tra la redazione di Collettiva e gli studenti del corso di laurea in Media, comunicazione digitale e giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma. Gli autori sono studenti che hanno partecipato al nostro laboratorio di giornalismo narrativo.
È un grigio martedì qualunque nella piovosa, trafficata e rumorosa Capitale. Ma c’è un angolo verde e tranquillo, incastonato come uno smeraldo tra Quartiere Trieste e Quartiere Africano. Nel Parco Nemorense regna la pace e domina il verde. Lungo i viali, un lieve brusio porta ad una struttura a semicerchio, che con uno sforzo di prospettiva ricorda proprio un sorriso. Lo stesso sorriso, brillante e malinconico, che illumina il volto di Suleman dopo che il suo viaggio, iniziato su un barcone sull’altra sponda del Mediterraneo, si è concluso (per ora) a Roma. “Vengo dal Mali, mi sono separato dalla mia famiglia nel 2007 e nel 2008 sono partito, con l’idea di migliorare la mia vita e quella dei miei cari. Ho pensato di aiutarli con l’agricoltura perché siamo agricoltori ma finché stavo nel villaggio la coltivazione non bastava per la sopravvivenza. La famiglia è numerosa, 40/50 persone, e per nutrire tutti serviva una forza maggiore”. Una storia probabilmente simile a quella di molti tra i 110.000 nuovi arrivavi sulle coste italiane del triennio 2021-2023(secondo il ministero dell'Interno).
Il nemico dietro l’angolo
In Italia, però, Suleman, si ritrova a faticare per una manciata d’euro l’ora, sotto il rovente sole del Mezzogiorno. “Sono stato a Rosarno per tutto il 2009 e 2010, quando c'è stata la manifestazione contro lo sfruttamento. Le persone abitavano nelle fabbriche abbandonate, nelle baracche e nonostante questo venivano sfruttate e sparate come fossero animali, scarafaggi. Sono poi finito a lavorare nelle campagne di Foggia, abitavo nel Gran ghetto di Rignano, e venivamo sfruttati per raccogliere pomodori. Al supermercato la passata o i pomodori li trovi a un euro al chilo. Ma chi li raccoglie riceve appena tre euro per una cassa da 350 chili, in una giornata non si riesce a guadagnare più di venti euro. Poi sei ovviamente costretto a spendere quasi tutto perché non ti danno da mangiare, devi pagare il trasporto per essere portato al campo. Questo è il caporalato”. Suleman si trova a vivere, quindi, lo sfruttamento delle centinaia di migliaia di braccianti irregolari nei campi del Sud Italia, tra Puglia, Sicilia e Calabria. “Senza contratto non hai diritti: non hai malattia, ferie e contributi. Ti pagano pochissimo, dalla mattina alla sera ti danno 20 euro. Per un lavoro che dovrebbe essere pagato 100 euro a giornata, te ne danno 20”.
Ad aver scritto molto sul tema è il sociologo Marco Omizzolo, che sostiene quanto sia necessario guardare al caporalato differenziandolo dal padronato. “Il caporalato è un'attività di selezione e reclutamento illecito compiuto da un soggetto spesso di nazionalità italiana in una certa azienda, spesso ma non necessariamente soltanto agricola. È un'attività di selezione della manodopera a fronte di persone che hanno alcune caratteristiche fondamentali: parlano poco l'italiano con la variabile (come riferimento prevalente) della loro regolarità sul territorio nazionale alla quale si aggiunge anche il genere. Condizioni che cambiano a seconda dei contesti e delle situazioni e anche del tipo di attività che si va a svolgere. E in cambio di questa selezione e trasporto si ottiene un illecito profitto con il quale si sviluppa anche un sistema di potere. Quindi, non è soltanto un'attività di arricchimento economico”.


Il padronato
Agendo così qualcuno si arricchirà e sfrutterà la propria posizione di dominio dentro un ordine stabilito da altri, dove vigono una serie di obblighi: dal silenzio al rivolgersi al padrone per rinnovare il permesso di soggiorno o per un posto letto. Il padronato, invece, per Omizzolo “è l’attività apicale che viene compiuta e voluta dal datore di lavoro. Le persone selezionate e reclutate lavorano dentro un'azienda, dove recepiscono l'utilizzo di certi linguaggi stabiliti dal datore di lavoro. Il caporale è un esecutore che agisce entro il perimetro stabilito dal datore di lavoro. Quest’ultimo è il deus ex machina nella sua azienda, con la possibilità che sia lui stesso a selezionare all'interno della propria squadra colui che prenderà il posto da caporale. Una scelta compiuta in ragione di alcune caratteristiche specifiche che attengono, addirittura, alla personalità”.
Il padronato ha una dimensione rilevante nel Paese ma scompare nella comunicazione mainstream perché lo schema di riferimento è sempre il caporalato. Emblematico il caso di Satnam Singh abbandonato dal datore di lavoro - e non dal caporale - davanti casa con un braccio tranciato. Sociologicamente, i datori di lavoro si configurano come “padroni” nei confronti di lavoratori subordinati. Questi ultimi si possono considerare schiavi, nel senso più ipermoderno del termine: non persone prive di diritti ma che vivono in uno stato di vulnerabilità costante.
L’invisibile (dis)umanità
Nel moderno sistema schiavista, le persone - per padroni e caporali - sono garanzia di guadagno perché vulnerabili economicamente e scarsamente integrate a livello sociale. Situazioni terribili che trovano residenza anche nella realtà pontina. In questo contesto però, come precisa Omizzolo e la sua esperienza da bracciante Sikh infiltrato, bisogna evitare generalizzazioni. Non bisogna pensare a caporalato e padronato come “fenomeni di pianura” ma avere la consapevolezza che questi sistemi sono diffusi anche nell’area pedemontana e montana e permeano ovunque grazie a una sorta di “cartello dello sfruttamento”: le indagini dei Carabinieri e della Questura di Latina hanno intercettato dialoghi tra imprenditori in cui si pattuivano retribuzioni e altre caratteristiche di impiego per i lavoratori sfruttati.
Grazie alla Legge 199/2016, il reato riconosciuto al datore di lavoro nasce per volontà di quelle persone che ci hanno detto “guarda che il problema non è tanto chi mi recluta e mi chiede 5 euro per portarmi a lavorare nell'azienda di Mario Rossi. Il problema è Mario Rossi che ci fa lavorare quattordici ore al giorno che ci dà due euro l'ora, che usa un linguaggio razzista e che ci picchia”. Riconoscendo, quindi, una responsabilità non nell'intermediario. Satnam non è morto di sfruttamento. È morto - conclude Omizzolo - perché gli è stato negato il diritto alla vita, alla salute. Non è morto perché stava lavorando da quattordici ore. È morto perché non è stato trattato da persona ma come un oggetto, è stato riportato sull’uscio di casa e abbandonato e dopo due giorni è morto in ospedale. Gli è stato negato il diritto alla salute, da cui deriva poi il diritto alla vita. Quindi, non parliamo soltanto di un diritto strettamente sindacale ma di un diritto molto più intenso, molto più ricco”.


Da accolto ad accogliente
Per Suleman, però, è andata diversamente. La svolta nel suo viaggio arriva grazie ad un centro sociale (ex Snia), ad un’accoglienza fatta di umanità, che gli permette di mettersi in gioco con la prima produzione di yogurt Barikamà. “A Roma ho iniziato a pensare a qualcosa per sopravvivere prima di trovare lavoro, e così è nata la cooperativa. Abbiamo formato un’associazione sociale per poter prendere il latte biologico, da trasformare e vendere nei mercati contadini. Siamo passati dai quindici litri a settimana iniziali ai centocinquanta di oggi. Nel 2013 abbiamo vinto un bando della Regione Lazio per mettere in regola il progetto. Il finanziamento però era a rimborso, e quindi dovevamo trovare i soldi da spendere per poterli avere indietro dalla Regione. Con un crowdfunding siamo riusciti ad avere i venticinquemila euro in un solo mese, con i quali abbiamo comprato tutta l’attrezzatura per la produzione e le consegne a domicilio. Da lì abbiamo creato la cooperativa”.
Una storia fatta di resistenza e resilienza, insomma. In italiano non esiste un termine che comprenda entrambi i concetti ma, fortunatamente, in Mali sì. Ed è Barikamà. “Avendo attraversato tante difficoltà per arrivare in Italia abbiamo pensato di mettere su qualcosa che continui nel tempo con la forza di volontà”. Già così sembrerebbe il più classico lieto fine, ma la storia prosegue con un’altra importante lezione di vita e integrazione. Il gruppo di migranti, divenuti imprenditori, ha intrapreso una collaborazione con ragazzi con la sindrome di Asperger, “persone molto intelligenti, messe ai margini della società. Come noi migranti, abbandonati e sfruttati. In questo modo, invece, uniamo le forze per lavorare insieme: noi mettiamo la manodopera e loro la forza lavoro d'intelligenza”.


Il viaggio continua
Il viaggio di Suleman e dei suoi continua sulle sponde del lago di Martignano dove, dal 2014, la produzione viene estesa anche agli ortaggi: “Alcune persone avevano problemi con il lattosio e prendevano le verdure. Lì è nata l’idea di usare terreni non più coltivati. Oggi lavoriamo più di dieci ettari di ortaggi di stagione, facciamo mercati su Roma e le consegne a domicilio”.
Suleman non resiste al richiamo della sua amata Roma, tanto da prendere in gestione un chiosco al Parco Nemorense nel 2015: “Oltre a gestire il bar ci occupiamo dell’apertura e della pulizia del parco. Nel futuro, quello che pensiamo e speriamo di fare è trovare la possibilità di aiutare chi è in difficoltà”.
La potenza della storia di Suleman e della cooperativa Barikamà ha fin da subito riscosso notevole attenzione, dai media nostrani a quelli esteri, come testimonianza rara di integrazione. Le vicende di Latina e dintorni, al contrario, vedono tra le più riuscite storie di emancipazione quelle in cui il lavoratore bracciante apre negozi etnici, con una clientela di connazionali. Altra possibilità per i braccianti è quella di diventare essi stessi imprenditori agricoli, ma si tratta per lo più di prestanome dei “vecchi” padroni. Una condizione di autonomia incompleta perché persiste il rapporto di dipendenza come strategia dell’azienda madre. Si sposta la dinamica dello sfruttamento ma si mantiene inalterato lo stato di ricattabilità.


Il paradosso dell’emancipazione
Il percorso di emancipazione è complesso e denso di contraddizioni. Omizzolo analizza questi paradossi in termini pedagogici: “Il padrone non soltanto dice ai lavoratori 'io sono il tuo padrone, tu devi lavorare in queste condizioni', ma in qualche modo spiega l’unico modo in cui possono stare in questo Paese. Sono migranti economici, non passano attraverso il sistema di accoglienza, arrivano e vanno a lavorare. E quando si emancipano dal padrone, replicano quell’unica forma di indottrinamento che hanno ricevuto e sperimentato dentro le aziende”.
Parole che trovano conferma nella diffusione della criminalità straniera nell’Agro pontino, con Latina che si colloca al 33º posto nell’indice della criminalità stilato da “Il Sole 24 Ore”. A confermarlo c'è la storia dell’insediamento delle comunità indiane, che dagli anni ’80 sono cresciute in un contesto padronale, replicando speditamente quel modello. La storia di Suleman e di Barikamà dimostra invece che le alternative ci sono e sono possibili, e accendono un barlume di speranza per un futuro più equo e solidale.