PHOTO
Il progetto Calderoli, che arriva da lontano e si fonda su un presupposto sbagliato e velleitario – staccare l’economia del Nord-est e ancorarla a quella del centro Europa – ha obiettivi diretti ed effetti indiretti. Tra questi secondi, secondo Cristian Ferrari, segretario confederale della Cgil, c’è quello di superare il contratto collettivo nazionale e indebolire la rappresentanza e la funzione del sindacato. Ma, soprattutto, si metterebbero in competizione lavoratori con lavoratori, territori con territori. Rompendo coesione sociale e unità nazionale.
Di questo si discute oggi (6 giugno) a Verona in un seminario ("Autonomia differenziata: un progetto da FERMARE") organizzato dalla Cgil del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna, introdotto dallo stesso Ferrari e concluso dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini.
Qualora l'autonomia differenziata di Calderoli venisse approvata, quali ricadute avrebbe sul mercato del lavoro e sui contratti?
Innanzitutto un'ulteriore frammentazione delle politiche pubbliche. Già oggi che il lavoro è materia concorrente tra Stato e Regioni, sappiamo quanto sia difficile coordinare e definire un indirizzo e una strategia unitaria, ad esempio, sulle politiche attive. Si intraprenderebbe una strada esattamente opposta all'esigenza di rafforzare e coordinare le politiche e ridurre la frammentazione del mondo del lavoro. Questo rischio è certo insito nel progetto Calderoli, ma vorrei sottolineare che la possibilità di differenziare tutte le 23 materie che sono elencate dalle norme costituzionali, oltre alle ricadute dirette su quelle materie metterebbe a rischio la tenuta unitaria e nazionale dalla contrattazione collettiva. Vale innanzitutto per la scuola, rispetto alla quale si è già teorizzato anche questo come vero e proprio obiettivo, ma varrebbe per tutti i settori interessati da una devoluzione con competenze esclusive alle Regioni. Insomma, in ogni settore i lavoratori avrebbero in forse la tenuta del contratto collettivo nazionale. La pericolosità di questa operazione sta proprio qui: mette in discussione proprio i due cardini portanti dell'unità e dell'identità del nostro Paese: la scuola e la contrattazione collettiva nazionale. Qualora venissero incrinati questi due capisaldi, è chiaro che l'unità del Paese, la sua coesione, ne verrebbe colpita pesantemente. Insomma, nulla di buono né per i lavoratori e le lavoratrici del Nord né per quelli del Sud,
Da un lato si parla di una legge per il salario minimo, dall'altro si discute di differenziare il salario dei lavoratori e delle lavoratrici tra regione e regione... Se l'autonomia differenziata diventasse legge, dal punto di vista salariale che cosa potrebbe capitare?
Potrebbe capitare di tornare addirittura alla logica delle gabbie salariali. Questo è il punto, teorizzato esplicitamente da qualche esponente politico: un'ulteriore differenziazione delle condizioni dei salari, che ovviamente porterebbe al superamento del contratto nazionale di lavoro, che è uno strumento indispensabile, fondamentale, a garanzia dell'uniformità, ma è anche uno strumento di forza contrattuale che permette ai lavoratori e alle lavoratrici di poter esprimere un rapporto di rappresentanza e di forza che verrebbe meno. L’autonomia differenziata sarebbe davvero la destrutturazione dell'insieme del sistema contrattuale. La nostra strategia, invece, ha l'obiettivo di ricondurre il tema, ormai ineludibile, del salario minimo a un rafforzamento e a un pieno riconoscimento di un sistema di contrattazione collettiva nazionale, quindi a una legge sulla rappresentanza. Riconoscimento dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni rappresentative a cui ricollegare il salario minimo, tenendo così insieme in maniera assolutamente complementare e coordinata questi due strumenti: la contrattazione collettiva nazionale e, appunto, l'obiettivo di definire una soglia salariale. Con l'autonomia differenziata evidentemente tutto ciò non sarebbe oggettivamente possibile.
Un altro rischio che sembrerebbe potersi correre è quello di una sorta di dumping tra regioni. Non si correrebbe, cioè, il rischio che lavoratori e lavoratrici di Regioni con salari più deboli potrebbero essere attratti da quelle con retribuzioni più alte, svuotando così di talenti le più fragili?
Questo rischio c'è, eccome. La filosofia di fondo della operazione autonomia differenziata è una un'idea antisolidaristica. La competitività, invece, è proprio la cifra del pensiero che sta alla base dell’autonomia. Questa non è un'operazione temporanea, dietro c'è un pensiero, c'è una storia, c'è un imprinting politico e culturale, e il principio è esattamente quello di rilanciare una logica di competizione. Se questo è il principio, allora non si fermerà alla dimensione territoriale, inevitabilmente si arriverebbe alla competizione delle classi sociali con quelle più forti che potrebbero sentirsi in diritto di negare solidarietà verso quelle più deboli. Un anticipo di questa impostazione è nella delega fiscale all’attenzione del Parlamento. Nulla di buono, soprattutto per i lavoratori che già oggi subiscono una competizione sfrenata tra le persone determinata dal modello economico. Ci manca solo di aggiungere a questa competizione sociale che mette l'uno contro l'altro singoli lavoratori, anche quella territoriale. Competizione, inevitabilmente al ribasso.
La guerra dovrebbe avercelo insegnato: ci sono alcune grandi reti, dall’energia alle telecomunicazioni, che non hanno più nemmeno una dimensione nazionale ma almeno europea. Con l’autonomia Calderoli vorrebbe retrocederle a livello regionale.
Stiamo parlando di materie di grandissima rilevanza nazionale e strategica: le politiche energetiche, delle infrastrutture, dei porti, degli aeroporti, della comunicazione. Affidarne la competenza esclusiva alle singole Regioni, da un lato impedirebbe la possibilità stessa di mettere in campo una politica economica e industriale di sviluppo nazionale. Proprio in un momento drammatico in cui nemmeno la dimensione nazionale ormai è più sufficiente, dovremmo invece proiettarci a livello continentale per dare continuità al Next Generation Eu e costruire lì politiche industriali ed energetiche europee. Dall’altro lato si produrrebbe, appunto, una frammentazione che metterebbe in moto una logica di dumping territoriale al ribasso che peggiorerebbe le condizioni non solo per le lavoratrici e i lavoratori, ma anche per gli stessi operatori economici e per le stesse imprese
Come è possibile pensare allo sviluppo di un paese che ambisce ad essere una potenza europea frammentando le grandi reti europee?
Sì, è una visione assolutamente antistorica. Ma non la si sconfigge con posizioni dogmatiche neo-centraliste. E non è nemmeno una battaglia esclusivamente per il Meridione che, certo, sarebbe danneggiato da un'operazione di questo tipo. Pensiamo solo al fatto che si aumenterebbero le risorse e le quote di compartecipazione alle Regioni più ricche e francamente non si capisce dove si troverebbero le risorse per cercare di garantire, invece, le aree a minore capacità fiscale. Insomma, il modello che questa maggioranza sembra voler affermare – dall’autonomia differenziata alla delega fiscale –, è quello dei diritti diversi a seconda della Regione in cui si risiede o della famiglia nella quale si nasce. Ma questa operazione infliggerebbe un danno anche allo stesso sistema produttivo settentrionale. E allora, diciamocelo chiaramente, dietro questo progetto c'è anche una strategia economica sbagliata che ha attraversato larghe fasce delle classi dirigenti politiche ed economiche del Nord, cioè quella di sganciare il sistema produttivo del Settentrione, e in particolar modo del Nord-est – dal resto d'Italia per proiettarlo nelle catene del valore del centro Europa e della Germania in particolare. Un'idea sbagliata già nel 2017 quando è nata questa operazione, ma che oggi con la guerra, con la crisi energetica, con la fine della globalizzazione così come l'avevamo conosciuta, dopo la messa in discussione dello stesso modello tedesco che sta evidenziando tutte le sue fragilità, dimostra davvero la sua infondatezza e anche la sua velleità.
Quale la strada da seguire, allora?
Dovremmo ragionare della straordinaria interdipendenza e complementarietà tra Nord e Sud del nostro Paese in una logica di rilancio della domanda interna. Dovremmo costruire un grande sistema paese dentro al quale ogni impresa è più forte, ogni lavoratore è più forte, per proiettarsi in quella logica di rilancio del processo di unità e di integrazione europea che è la vera direzione che dobbiamo prendere per affrontare le sfide storiche della riconversione energetica, della transizione ecologica e della digitalizzazione. O noi ci proiettiamo e ricostruiamo un'Europa che sia protagonista e che abbia anche una sua autonomia strategica, o altrimenti, se pensiamo di ripiegarci localisticamente in 21 piccole patrie, non solo faremo un danno all'Italia, ma non andremo davvero da nessuna parte. Una direzione ostinata e contraria alle traiettorie della storia. Anche per questo l’autonomia differenziata va contrastata e va difesa, invece, l'idea di un paese che investe per ridurre divari e disuguaglianze e che si proietta con forza nel contesto europeo.