PHOTO
Elena Granaglia insegna Scienza delle Finanze al dipartimento di Giurisprudenza di RomaTre. Da sempre è interessata al tema del rapporto fra giustizia sociale e disegno istituzionale delle politiche di distribuzione delle risorse. Fa parte del Forum Diseguaglianza e Diversità. Il welfare è uno degli ambiti di ricerca al quale si è sempre interessata: e parlare di welfare significa parlare di sanità, o meglio di salute.
La Costituzione italiana pone alcuni diritti come base della cittadinanza. Tra questi c'è quello alla salute.
Assolutamente sì, insieme a quello all'istruzione. La cosa interessante è che non mette a oggetto del diritto soltanto l'accesso ai servizi sanitari, cosa peraltro importante, ma mette proprio la salute. E la salute è qualcosa di più ampio che non l'accesso ai servizi sanitari: sappiamo che fondamentali sono anche i determinanti sociali, cioè chi sei e dove abiti ha un'influenza fortissima sulle tue aspettative di vita, a prescindere dalla dall'accesso ai servizi sanitari. Quindi una Costituzione molto moderna anche sotto questo profilo.
Infatti nel 1978, quando il Parlamento approvò la legge che istituiva al servizio sanitario nazionale pubblico e universale per dare attuazione a quel dettato costituzionale, ritenne che quel diritto non fosse solo l'assenza di malattia ma una concezione molto più ampia: che la salute è determinata, per esempio, dalla qualità dell'aria o dall'ambiente. Dal '78 a oggi che cosa è successo?
Importante ricordare questa concezione ampia di salute, intesa come riduzione dell'incidenza delle condizioni di malattia, quindi non soltanto erogazione di prestazioni, che dipende moltissimo anche dal sistema delle relazioni sociali, e dal contesto socioeconomico ed ambientale. A questo proposito vorrei solo ricordare che sir Michael Marmot (“La salute disuguale: la sfida di un mondo ingiusto” - Il Pensiero Scientifico Editore 2016 n.d.r.) evidenziò che le disuguaglianze di salute, le diverse aspettative di vita siano in gran parte dovute anche a che tipo di lavoro si svolge, se è precario oppure no, eccetera. Per questo è bene sottolineare che quello del '78 fu davvero un grande cambiamento. Prima avevamo 300 enti mutualistici, tutti differenziati sulla base dei contributi pagati e disoccupati, inattivi e poveri non avevano accesso ai servizi sanitari. La 833 del '78 ha dato attuazione al grande sogno scritto nella Carta, anche se in ritardo, di mirare a garantire a tutti, senza discriminazione , l'accesso alla salute grazie a una rete universale di servizi. Proprio perché parliamo di Costituzione, vorrei ricordare la connessione che esiste tra l’articolo 32 e il 3 secondo comma. Altra cosa importate da sottolineare è che la legge istitutiva del servizio sanitario riteneva che il modo in cui si realizza la tutela della salute doveva avere al centro la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini. Non si parlava di aziende ospedaliere, si parlava di enti ospedalieri. Adesso affermiamo che dovremmo espandere la medicina territoriale, siamo nel 2023, questo era il sogno del servizio sanitario nel '78. Da allora, purtroppo, molte di queste attese e di queste speranze sono rimaste vane. Certo, non guardiamo soltanto la parte negativa: se guardiamo alle aspettative di vita, l'Italia è ancora un Paese che almeno su questo piano ha dati migliori di altri Paesi europei, quindi sicuramente sono stati compiute azioni assolutamente desiderabili sotto il profilo della giustizia sociale. Ma, la parte negativa, la non cura del Ssn va ribadita.
E allora cosa è successo dal '78 a oggi?
Fin da subito si è cominciato a demolire quel sogno di realizzare un diritto alla salute partecipato. Basti ricordare, ad esempio, agli inizi degli anni '80 il ministero della Salute, quello che doveva attuare la riforma del '78, fu affidato ad Altissimo esponente dell’unico partito, il Pli, che aveva votato contro quella riforma. Ovviamente invece di attuarla cominciò a parlare di riforma della riforma. E pensiamo a quanto tempo c'è voluto per assicurare una base finanziaria decente al servizio sanitario. Fu Vincenzo Visco, ministro delle Finanze, nel 1997 con la fiscalizzazione degli oneri sociali e l'introduzione dell’Irap a dare seguito all'obiettivo di avere un finanziamento adeguato a garantire il diritto universale alla salute. Quando sono in gioco i diritti di tutti l'unica leva di finanziamento accettabile è quella fiscale.
Vogliamo ricordare che nel '78 la ministra della salute era Tina Anselmi. Relatore al Senato della legge che istituì il servizio sanitario nazionale era Giovanni Berlinguer: quella norma ebbe un padre e una madre di cui rimpiangiamo ancora il lavoro e il valore. Detto questo, c’è un termine che lei ha usato che forse meglio di altro descrive ciò che è successo: azienda. I servizi sanitari a un certo punto sono stati trasformati in aziende.
Ha colto un punto assolutamente centrale. Tina Anselmi e Giovanni Berlinguer operarono per dare attuazione alla Costituzione, ma non fu così per tutti i ministri che si sono succeduti. All’inizio degli anni '90, un altro ministro della Salute liberale, De Lorenzo, presentò due proposte di legge che prevedevano lo smantellamento del servizio e l’uscita dal sistema delle persone più ricche. Per fortuna l’allora Presidente della Repubblica Ciampi bloccò questo disegno, reputandolo non accettabile sotto un profilo costituzionale. Ciò che invece non si è riusciti a bloccare è l’aziendalizzazione del sistema: si passò dalle unità sanitarie locali alle aziende sanitarie locale con un direttore monocratico al posto della partecipazione. L'equilibrio di bilancio diventò assolutamente centrale e si incominciò a ragionare anche all'interno del pubblico di incentivi monetari, di retribuzioni basate sulle prestazioni dove il successo aveva a che fare essenzialmente con la riduzione dei costi. Certo, venivamo da un periodo complicato sotto almeno due profili, quello finanziario, non dimentichiamoci la crisi economica fortissima, all'inizio degli anni 90, che peraltro ha coinciso con il forte di incremento di tutte le disuguaglianze; dall’altro a una gestione delle unità sanitarie locali che, anziché essere basate sulla partecipazione democratica è stata in alcuni casi accompagnata da malcostume. Anziché rilanciare il servizio sanitario su universalità e centralità del pubblico e sulla partecipazione democratica, si decise, però, di andare nella direzione del mercato. Già all'inizio degli anni '90, si aprì all’introduzione del privato nel Ssn e all’introduzione delle agevolazioni fiscali molto forti alla sanità privata, e ai fondi privati. Non va dimenticato, però, che questa estensione dei favori della sanità privata ha comunque un costo per il bilancio pubblico.
L'ha appena descritto in maniera mirabile: siamo in presenza di una privatizzazione nemmeno troppo nascosta, anzi affermata della sanità. La coerenza con la Costituzione?
Mi sembra ci siano delle tensioni molto forti. La nostra Costituzione parla di bilanciamento e quindi sicuramente le finalità di efficienza devono essere bilanciate con le finalità di giustizia sociale. Mi pare che le diverse forme di privatizzazione abbiano portato né efficienza del sistema né giustizia sociale. Aggiungo: anche il blocco delle assunzioni e il tetto alla spesa per il personale ha dato un ulteriore impulso alla privatizzazione. Accanto a questo c'è un altro modo di favorire il privato, quello di fare peggiorare lentamente i servizi pubblici, così si mina la fiducia e l’attaccamento dei cittadini a quelle che dovrebbero essere istituzioni fondamentali. Bisogna curare il servizio sanitario nazionale, curare le condizioni di lavoro e pagare adeguatamente il personale.
Un altro dettato costituzionale è quello di un sistema fiscale legato alla capacità contributiva dei cittadini e progressivo. Al sistema fiscale è anche assegnata una funzione redistributiva attraverso il welfare. Cosa non funziona?
Non funziona il fatto che ormai la stragrande parte del gettito dell'Irpef viene prelevato a carico dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, tutte le altre fonti di reddito sono escluse dalla progressività. Non funziona la flat tax, che differenzia il regime fiscale facendo pagare un’aliquota più bassa a parità di reddito. Non funziona il fatto che con la delega approvata dal governo si abolisce l’Irap, imposta che finanzia il servizio sanitario.
Professoressa, c'è un aumento delle diseguaglianze rispetto ai bisogni di salute e l'aspettativa di vita è diversa a seconda di dove si vive. Anche in questo caso mi pare che la Costituzione, a partire dall'articolo 3, sia inattuata.
Assolutamente sì, è inattuata anche rispetto all'articolo 3. Le disuguaglianze di salute e nell'attesa di vita sono forti. Dobbiamo agire su due fronti. La giustizia sociale non richiede soltanto interventi di redistribuzione individuale, che pure servono, in termini economici e in termini di servizi. Le diseguaglianze sono determinate anche dal contesto, territoriale e sociale. L'intervento fondamentale è quello di lavorare sulla rimozione degli ostacoli. Sicuramente quello che ci prospetta l'autonomia differenziata non sembra proprio andare in questa direzione.
Cosa occorre, invece, per dare attuazione all'articolo 32 della Carta?
Innanzitutto serve un cambiamento culturale che faccia aumentare la consapevolezza del valore del servizio sanitario pubblico e universale. Occorre poi puntare sulle tante esperienze positive che esistono e farle proliferare, a partire dal far leva sulle case di comunità, e poi ci sono le cose che non dovremmo fare più. L’elenco sarebbe lungo, ma sostanzialmente si tratta di invertire la rotta rispetto alla privatizzazione. Basta con il definanziamento del servizio sanitario, basta con il tetto di spesa per il personale mentre ci si avvale dei medici a gettone. Poi, ovviamente, occorrerebbe assumere un numero adeguato di professionisti della sanità valorizzandoli anche dal punto di vista economico oltre che professionale. E bisognerebbe tornare a quello spirito di comunità fondato sulla partecipazione democratica, che portò alla riforma del '78.