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Nell’anno accademico 2021-22 le immatricolazioni negli Atenei del Sud calano quasi il doppio rispetto alla media nazionale (il 5 rispetto al 3%). Non solo: la presenza femminile nelle discipline Stem – quelle scientifico-tecnologiche – risulta ancora per motivi culturali largamente sottovalutata. L’università italiana, insomma, fa da specchio alle debolezze strutturali – territoriali e di genere – del nostro paese.
Via dal Sud
Per Alessandro Arienzo, docente di Storia del pensiero politico all’Università Federico II di Napoli, quello che accade al Sud è figlio di una complessità che va analizzata in profondità. “Già tre anni fa – ci dice – nei rapporti Svimez si parlava di un disastro demografico generato dalla diminuzione degli abitanti e dal fatto che molti giovani lasciano il Sud, con il risultato di avere meno famiglie e dunque meno figli. Il che ovviamente si traduce in un calo di iscrizioni negli atenei del Mezzogiorno”. “D’altro canto rispetto a chi se ne va – aggiunge – chi resta appartiene alla fascia sociale ed economica che non individua nell'università una prospettiva”. Il Rapporto 2022 di Almalaurea sui laureati ci ricorda come il 28,0% dei laureati dal Sud ha scelto atenei di altre aree, rispetto al 13,2% dal Centro e al 3,3% dal Nord.
Altro dato interessante, sempre segnalato puntualmente dallo Svimez, è che risulta molto alto il dato di studenti che per la laurea magistrale prosegue gli studi al Nord. “Credo – chiosa Arienzo – che il motivo non vada cercato tanto in un giudizio sulla qualità degli atenei, quanto nel fatto che il triennio finale è visto quello più vicino al lavoro, ad esempio con i tirocini, e dunque studiare in realtà con un mercato del lavoro dinamico viene percepito dalle persone come più conveniente”.
Di fronte a uno scenario generale di calo delle immatricolazioni, recentemente la ministra dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha parlato di “un campanello d’allarme che non ci si aspettava, ma che va contestualizzato: viene dopo un aumento negli ultimi cinque anni. Borse di studio e campagne informative sono alcune tra le leve da utilizzare per invertire la tendenza”. Messa ricorda che il governo ha “investito 250 milioni del Pnrr, aumentando il valore delle borse di studio, soprattutto per coloro che scelgono di spostarsi, ampliando la platea dei beneficiari e premiando le ragazze che decidono di intraprendere percorsi Stem con un supporto aggiuntivo”.
È questa la soluzione? Scettico il docente della Federico II, per il quale, “certo il Pnrr poteva essere uno strumento utile, ma non vedo grandi proposte”. Per quanto riguarda le borse di studio, “posto che aumentarle va sempre bene, per il Sud potrebbe non rappresentare un intervento risolutivo. Nella mia università, ad esempio, abbiamo già una no tax area più alta di quella ministeriale, ma secondo me le barriere più rilevanti riguardano i servizi: residenze per studenti, mense, trasporti”, mentre, osserva, “sarebbe anche molto utile intervenire su orientamento e tutorato in entrata, soprattutto per ragazze e ragazzi che vengono dall’istruzione professionale, per far capire loro che l’università è importante, soprattutto al Sud in cui il legame col mondo del lavoro è molto complicato”.
Poche donne nei corsi scientifici
Secondo i dati del ministero dell’Università, nel 2021 solo il 22% delle ragazze iscritte all’università ha scelto un corso Stem, in leggero aumento rispetto agli anni precedenti. Ma è ancora troppo poco, soprattutto se si pensa che le donne rappresentano il 60% dei laureati in Italia. Temi indagati ancora una volta da Almalaurea nel suo rapporto "Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali"
“È il risultato di stereotipi culturali – ci dice Paola Inverardi, già rettricie all’Università dell’Aquila, e ora alla Guida del Gran Sasso Science Institute –, quello per cui le donne sarebbero naturalmente più portate per studi e lavori legati alla cura. Ma si tratta di un errore, che non tiene conto dell’evoluzione tecnologica della società moderna e rispetto al quale occorre intervenire presto, con l’orientamento sin dalle scuole”. Inverardi, che è docente di informatica, si occupa, con un gruppo interdisciplinare in cui sono presenti anche filosofi, di etica dei sistemi autonomi, cioè di come gli esseri umani possono e debbono interagire con sistemi che prendono decisioni al loro posto.
“Scontiamo un atteggiamento culturale vecchio – attacca –, che tende a considerare la cultura scientifica arida e poco spendibile socialmente, come se invece oggi occuparsi di tecnologia non significhi prendersi cura degli altri. Viviamo immersi in tecnologie che cambiano la nostra vita, le relazioni sociali, il modo in cui si organizza il lavoro e la didattica. Non comprendere che se si vuole essere al centro della società in cui si agisce bisogna conoscere questi aspetti è un errore grave”. Ormai, aggiunge, “abbiamo sistemi che ci organizzano la vita, e va bene: ma quanti spazi occupano che noi non occupiamo più? Qual è il loro impatto etico sulla nostra vita?”.
Insomma la cura passa anche di qui e abbiamo bisogno di uomini e donne che si occupino di questioni così rilevanti. Certamente negli anni le cose sono un po’ migliorate, rispetto a quando, ricorda la ricercatrice, “negli anni Ottanta su 300 immatricolati al corso di Ingegneria informatica al Politecnico di Milano solo due erano donne e in alcune aree dell’edificio non erano presenti neanche bagni femminili, ma non basta”. Cosa fare allora?
“Credo che bisogna intervenire molto presto, a cominciare dagli ultimi anni di scuola – osserva Inverardi –. Qualcosa comincia a muoversi in università, consorzi, aziende, associazioni. All’Aquila, ad esempio, abbiamo attivato il progetto PinkamP, rivolto alle ragazze del terzo e quarto anno delle superiori. Si tratta di una cinquantina di studentesse che vengono da tutta Italia”. Il campo è totalmente gratuito e ha l’obiettivo di “avvicinare le ragazze alle discipline inerenti alla società digitale, oltre gli stereotipi di genere, cercando di rimuovere barriere e pregiudizi, (di)mostrando come le donne possano contribuire allo sviluppo e al miglioramento delle tecnologie del futuro, grazie alla loro creatività, sensibilità e attitudine al problem solving”.
Del resto nell’ambito del progetto “Programma il futuro” realizzato da Miur e Consorzio Cini (che ha l’obiettivo di insegnare il pensiero computazionale alle bambine e ai bambini delle scuole elementari), su un campione di 1 milione di soggetti non è stata rilevata alcuna differenza di genere nell’attitudine verso le discipline scientifiche. “Le differenze arrivano dopo – conclude Inverardi – e sono legate a stereotipi culturali: ed è su questi che occorre intervenire”.