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Vicino a Dacca, capitale del Bangladesh, crolla uno stabilimento dove lavoravano in condizioni indicibili circa 5 mila persone. Muoiono 1.138 operai, 2.500 rimangono feriti. È la strage del Rana Plaza che si consuma il 24 aprile 2013. A oltre dieci anni di distanza da quella tragedia che cosa è successo? Quali diritti sono stati conquistati nelle fabbriche che riforniscono diversi marchi della fast fashion come Benetton, El Corte Ingles, Primark, Walmart?
Bangladesh e Pakistan
Da allora è intervenuto l’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento, firmato da Uni Global Union, IndustriAll Global Union, otto sindacati del Bangladesh e 40 marchi il 15 maggio 2013, che ha posto sotto monitoraggio indipendente e trasparente più di 1.600 fabbriche, proteggendo 2,5 milioni di lavoratori. Più volte rinnovato, l’ultima a novembre scorso, nel 2022 è stato esteso anche al Pakistan.
A differenza dei sistemi commerciali di “audit sociale”, ha avuto successo perché è legalmente vincolante, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo che consente agli operai di segnalare i problemi in maniera protetta.
3 anni + 3 anni
“Le parti hanno raggiunto un’intesa di tre anni con un rinnovo automatico di altri tre, che espande sia la copertura geografica del programma che le questioni di merito – ha commentato Christy Hoffman, segretario generale di Uni Global Union -. Con la recente introduzione di requisiti di ‘due diligence’ nella catena di fornitura, i datori di lavoro di tutto il mondo dovrebbero rendersi conto che si tratta di un modello di comprovata esperienza”.
Un ruolo sostanziale è assegnato all'Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, che da tempo funge da presidente neutrale del comitato direttivo dell'Accordo, nel sostenere i programmi nazionali e garantirne l'effettiva attuazione. A oggi sono 119 i marchi che lo hanno sottoscritto, 100 quello sulla sicurezza in Bangladesh e 97 l’intesa in Pakistan.
Convincere tutti a firmare
“Bisogna convincere tutti i marchi a sottoscrivere il nuovo accordo e soprattutto convincere quelli che non lo hanno fatto, mostrando al mondo intero quanto stia loro a cuore la salute e la dignità dei lavoratori – afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti, che rappresenta in Italia la Clean Clothes Campaign -. Va firmato subito poiché si basa su un modello che negli ultimi dieci anni ha dimostrato di essere efficace, con il più alto standard del settore. In Bangladesh ha ridotto significativamente il numero di incidenti nelle fabbriche e attualmente sta portando grandi miglioramenti anche in Pakistan. Rifiutandosi di aderire, i brand negano ai loro lavoratori l’accesso alla formazione e ai meccanismi di reclamo e continueranno a fare affidamento su un audit sociale inadeguato piuttosto che su ispezioni indipendenti e competenti”.
Ci sono marchi che hanno produzioni molto importanti in Bangladesh e Pakistan ma che si rifiutano di firmare, multinazionali che potrebbero dare un contributo finanziario significativo.
Mantenere alta la pressione
“Levi’s, Ikea, Amazon, Walmart, Decathlon e Asda, solo per citarne alcuni – riprende Lucchetti -. Finché non lo firmeranno, chi lavora per loro rischia di morire ogni giorno. E l’elemento odioso è che alcuni brand non si impegnano ma poi si servono di fornitori che invece aderiscono. In questo modo non contribuiscono finanziariamente al percorso di miglioramento ma beneficiano del lavoro che fanno altri marchi che hanno accettato l’accordo. Quello che faremo nei prossimi mesi è mantenere alta la pressione su questi brand, affinché non passi sotto traccia che si rifiutano di firmare continuando a tenere in condizioni di insicurezza i loro lavoratori”.