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Dodici anni fa crollava il Rana Plaza, un edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche tessili a Dacca, capitale del Bangladesh. 1.138 persone morte, lavoratori e lavoratrici che tagliavano, cucivano, modellavano per marchi internazionali. Succedeva il 24 aprile 2013.
Le catene di fornitura
Quegli stessi marchi avevano dichiarato che la tragedia avrebbe rappresentato l’occasione per cambiare le loro catene di approvvigionamento: le aziende che producevano lì erano responsabili di quanto accaduto. Ma i progressi reali fatti da allora si sono limitati alle questioni regolate da accordi vincolanti e per questo la campagna Clean clothes campaign invita i brand ad assumere impegni concreti e inderogabili.
Promesse ambiziose
Le promesse ambiziose subito dopo il crollo non mancarono. Ma solo la pressione di un milione di firme convinse 260 marchi a firmare un accordo vincolante per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh. Nonostante questa intesa, alcuni brand dell’abbigliamento, molti della fast fashion e dei tessili per la casa, continuano a fare affidamento su controlli volontari inefficaci o a beneficiare dei risultati dell’accordo senza contribuire.
Vite a rischio
“Tra questi ci sono Kontoor Brands (Wrangler, Lee), Decathlon, Amazon, Ikea, Walmart, Urban Outfitters e Tom Tailor - ricorda la campagna -, che continuano a mettere a rischio la vita delle proprie lavoratrici”. Inoltre, i salari sono ancora da fame e la libertà sindacale viene tuttora repressa.
“Oggi il ruolo dell’accordo è più cruciale che mai – dichiara Kamrul Hassan, segretario generale dell’Akota garment worker federation -, soprattutto di fronte ai nuovi rischi legati alla crisi climatica, come lo stress da calore e il pericolo di inondazioni. I marchi firmatari devono garantire che il programma ispettivo affronti attivamente questi pericoli e si estenda in modo più capillare lungo l’intera catena di fornitura”.
Passi indietro
I datori di lavoro, invece, hanno un’eccessiva ingerenza nel sistema di attuazione e governance del programma del Bangladesh, il Rmg sustainability council, potere che sta indebolendo l’accordo.
Sul fronte europeo una direttiva approvata l’anno scorso sul dovere di diligenza (direttiva 2024/1760) impone alle imprese con più di mille dipendenti di prevenire, minimizzare e riparare gli impatti negativi delle proprie attività sui diritti umani e sull’ambiente, non solo nelle filiali ma anche nella catena di subfornitura.
Ebbene, la Commissione adesso sta proponendo di depotenziarla attraverso il cosiddetto “pacchetto omnibus”, il più grande tentativo di deregulation messo in atto dalle istituzioni dell’Unione, contro cui si sono mobilitati il sindacato, associazioni e ong.
Pacchetto omnibus
“La direttiva sulla due diligence dovrebbe essere un faro per tutta l’Unione, e invece adesso si vorrebbe dare un colpo fortissimo al rispetto dei diritti umani, sindacali e del lavoro su tutta la filiera di fornitura”, afferma Salvatore Marra, responsabile Politiche europee e internazionale Cgil: “Con la scusa di voler alleggerire i carichi amministrativi e burocratici, con il ‘pacchetto omnibus’ si risponde alle mosse di Trump con un insieme di norme che deregolamentano in modo pericoloso ambiti come il dovere di vigilanza e la trasparenza salariale”.
Marra evidenzia che “la finalità annunciata è liberare le imprese dal giogo burocratico che le rende meno competitive rispetto ad aziende che hanno sede in altri Paesi dove ci sono regole diverse. In primo luogo, la competitività non dipende dal rispetto delle norme di vigilanza o dal peso burocratico, bensì da altri fattori. Inoltre, non si crea nuovo lavoro se alleggerisci la burocrazia o togli paletti, questa è una favola che ci raccontano”.
I nemici delle regole
Dietro il “pacchetto omnibus” ci sono le forti pressioni esercitate sulle istituzioni europee da alcuni Stati membri, da numerose associazioni imprenditoriali e dalle grandi società di consulenza, che lamentano un calo di competitività dell’Ue per effetto delle regole eccessive cui sono sottoposte le aziende in materia di diritti e sostenibilità.
Il governo francese ha chiesto formalmente alla Commissione di posporre a data da destinarsi l’entrata in vigore della direttiva sul dovere di diligenza, previsto per il 2027, e di restringere il suo ambito di applicazione alle società con oltre 5 mila dipendenti. Il governo italiano si è allineato alle posizioni di quello francese con un documento ufficioso presentato a Bruxelles e firmato dal ministro dell’Economia Giorgetti. Il governo tedesco ha suggerito di limitare l’obbligo di rendicontazione sui temi della sostenibilità alle filiali e ai primi anelli della catena di fornitura.
Un regalo ai grandi marchi
“La proposta della Commissione europea attacca la direttiva nei suoi aspetti di maggiore impatto per la protezione dei diritti umani e del lavoro nelle catene globali di fornitura”, afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti, sezione italiana della Clean clothes campaign: “Se non contrastata, di fatto, renderà la legge quasi innocua perché ridurrà gli obblighi di vigilanza delle imprese ai soli fornitori di primo livello e renderà praticamente impossibile l’accesso alla giustizia per le vittime di violazione nelle fabbriche. Un regalo ai grandi marchi in nome della semplificazione e della competitività che produrrà in realtà solo deregolamentazione e impunità”.