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Il 23 giugno 1946 viene firmato a Roma il protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio. In cambio il governo belga si impegna a vendere mensilmente all’Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 minatori immigrati.
La mano d’opera non doveva avere più di 35 anni e gli invii riguardavano 2.000 persone alla volta (per settimana). Il contratto prevedeva cinque anni di miniera, con l’obbligo tassativo, pena l’arresto, di farne almeno uno.
In quella fase storica, scriveva sul Bollettino della Società geografica italiana Ferdinando Milone pochi anni dopo, “lo sviluppo delle industrie e dei commerci” consentiva a una parte dei belgi di “abbandonare una fatica quanto mai ingrata ed abbrutente, nociva, mal retribuita e pericolosa”.
Nelle miniere, a prendere il loro posto, arrivarono gli italiani, completamente ignari di quel che li attendeva.
Le pattuizioni tra i due governi erano dettagliate e minuziose in merito al reclutamento e allo spostamento dei lavoratori, ma nulla fu mai scritto relativamente ai loro diritti, alla loro salute e sicurezza.
E infatti in miniera i morti saranno migliaia.
Tra il 1946 e il 1963 gli italiani morti nelle miniere in Belgio saranno 867 su un totale di 1126 vittime. Tra le cause dei decessi in primo luogo le frane (59,2%), i trasporti (14,3%), il grisù (9,4%), le esplosioni (4,7%) e le cadute nei pozzi (4%).
A causa di un errore umano, l’8 agosto 1956 il Belgio viene scosso da una tragedia senza precedenti. Un incendio, scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile di Bois du Cazier, causa la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità: 136 sono i minatori italiani.
Una sola parola: inferno, scriveva Gianluigi Bragantin sulle pagine di Lavoro venti giorni dopo la strage:
La grande maggioranza dei minatori italiani di Marcinelle, come di Charleroi e di Mons, di Testre e della Louvière, di Limburgo e di Liegi sono militanti dei partiti proletari e della Cgil. Molti di essi hanno strenuamente lottato in Italia, nei loro villaggi e nelle loro fabbriche, in difesa del lavoro, prima di rassegnarsi a emigrare. Era gente così quella che è rimasta sotto, questa volta, sepolta nella miniera di Amercoeur, straziata dalle frane, divorata dalle fiamme, soffocata dal fumo e dai gas, votata a una morte fra le più orribili che mente umana possa concepire (…) Pittori di grande fama lo hanno dipinto. Ma bisogna andarci per capirlo fino in fondo, nel respirarne il clima, per sentirne l’oppressione. I villaggi, le strade, i baraccamenti si susseguono uno accanto all’altro e diventa impossibile distinguerli l’uno dall’altro. D’inverno le strade gelano, sono avvolte da impenetrabili brume, la neve si sporca di carbone: e minatori passano dai 45 gradi sottoterra ai 35 sotto zero alla superficie. La strada sulla quale cammini è della miniera, la casa che abiti della miniera, dei padroni della miniera è lo spaccio, il piccolo cinema, la ferrovia, il pullman, il terreno da costruzione, i mobili, i letti, il bar, la birra che bevi, il pane che mangi. Tutto è del patron. Se manchi un giorno dal lavoro l’affitto del mese ti viene conteggiato al 50% in più; se manchi due giorni ti viene raddoppiato. Se perdi una pala sotto una frana la devi pagare, se non capisci l’ordine di uno chef che parla in dialetto fiammingo prendi una multa che va a finire alla congregazione religiosa del luogo.Contro tutto questo lottavano i minatori morti a Marcinelle e contro tutto questo continueranno a lottare i loro compagni.
Contro tutto questo continuiamo a lottare. Perché per sopravvivere all’epoca i migranti eravamo noi. Perché la fatica, il sudore, le lacrime, non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto. Ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio e noi non lo abbiamo dimenticato.