Recessione, rivoluzione, globalizzazione (addio)
Cominciamo con una domanda molto meno astratta di quanto non sembri a prima vista. Ci vogliamo chiedere, infatti, se la globalizzazione non sia arrivata al capolinea. O se quel fenomeno di liberi scambi internazionali, dislocazione geografica e frammentazione della produzione, e finanziarizzazione dell'economia che abbiamo imparato a chiamare negli ultimi 15 anni, appunto, "globalizzazione", non sarà del tutto trasformato dalla crisi e dalla recessione. Per rispondere a una domanda così complicata facciamo ricorso a un editoriale pubblicato su The Nation da Immanuel Wallerstein, storico e sociologo dell'economia, e autore di un'opera fondamentale per la comprensione del capitalismo occidentale, ossia Il sistema mondiale dell'economia moderna, edito in Italia dal Mulino.

"La depressione è cominciata – ci avverte Wallerstein dalle colonne di The Nation -. I giornalisti chiedono ancora timidamente agli esperti di economia se non stiamo semplicemente entrando in un periodo di recessione. Non pensateci neanche. Siamo già all'inizio di una vera e propria depressione mondiale che produrrà disoccupazione quasi ovunque." "Perché il nostro sistema si è allontanato dal suo punto di equilibrio? – si chiede l'autore -. Perché nell'arco di cinquecento anni la percentuale dei tre costi principali che incidono sulla produzione capitalistica – salari, fattori produttivi e tasse – è regolarmente aumentata rispetto al prezzo di vendita, al punto che oggi è impossibile ricavare dalla produzione quei profitti che hanno sempre consentito una forte accumulazione di capitale. Non che il capitalismo non riesca più a fare quello che sapeva fare così bene. È proprio perché lo ha fatto troppo bene che ha scardinato le basi dell'accumulazione futura. Che succederà ora? Per il momento c'è una forte turbolenza caotica, che forse continuerà per 25-50 anni. Dal caos emergerà un nuovo ordine, che seguirà uno o l'altro di due percorsi alternativi. Possiamo dire con certezza che il sistema attuale non sopravvivrà. Quello che non sappiamo è quale ordine prenderà il suo posto. Non sarà un sistema capitalistico ma potrebbe essere qualcosa di molto peggio (ancora più polarizzato e gerarchico) o di molto meglio (relativamente democratico e ugualitario). La scelta di questo nuovo sistema è una delle principali side dei nostri tempi".

La conclusione di Wallestein è che "per le prospettive a breve termine, quello che sta succedendo in tutto il mondo è chiaro. Stiamo entrando in una fase protezionista (addio globalizzazione!). Andiamo verso una maggiore ingerenza dei governi nella produzione".

A rischio quasi tre milioni di lavoratori cinesi
Su The Nation Wallerstein ha evidenziato le criticità del modello di globalizzazione che si è affermato in questi ultimi anni. Tra le conseguenze, la delocalizzazione delle attività economiche che trasferisce fabbriche da una parte all'altra del mondo alla ricerca di costi operativi più bassi, ma anche la diminuzione dei posti di lavoro. In Occidente – dice Wallerstein -, ma anche altrove, aggiungiamo noi. Secondo un articolo pubblicato dall'agenzia di stampa francese Agence France Presse, sono almeno 2,7 milioni gli operai che potrebbero perdere il proprio posto nelle fabbriche della Cina meridionale. La crisi economica globale colpirà con molta probabilità i prodotti elettronici, l'industria tessile e quella dei giocattoli che, negli ultimi anni, avevano contribuito alla crescita della regione. Secondo l'Agence France Presse, c'è da aspettarsi che 9mila delle 45mila aziende attive nelle città di Guangzhou, Dongguan e Shenzhen chiudano entro la fine del prossimo gennaio, almeno a credere alle stime delle associazioni degli industriali, considerate peraltro riduttive. A quel punto, infatti, le richieste di esportazioni dovrebbero essersi già ridotte del 30%, sotto i colpi della crisi partita dal crollo del mercato immobiliare statunitense. L'agenzia di stampa francese propone un'intervista a Eddie Leung, presidente della Dongguan City Association of Enterprises with Foreign Investment, che sottolinea come le prospettive per il governo cinese non siano particolarmente felici, considerando il declino delle industrie di export e il dramma della disoccupazione che continua a peggiorare.

In realtà, i primi effetti della crisi si sono già fatti sentire visto che la Smart Union, una delle principali imprese produttrici di giocattoli che rifornisce marchi statunitensi come la Mattel e Disney ha lasciato a casa, solo nell'ultima settimana, 7mila lavoratori. Le difficoltà colpiscono grandi e piccole aziende. Un esempio è quello della Mansfield Manufacturing di Hong Kong che, nel 1991, decise di trasferire parte delle proprie attività in Cina per godere dei vantaggi offerti dalla manodopera a basso costo. Ad oggi, il gruppo dà impiego a 8500 persone in 11 stabilimenti sia in Cina che in Europa, ma sta pensando di ridurre il personale di almeno 1000 unità. Significativo il commento del vecchio proprietario Harry To; "Con le banche così restie a concedere prestiti, è diventato facilissimo che un'azienda chiuda da un giorno all'altro."

Sindacati? Tutti per Obama
"Non molto tempo fa, sembrava che Barack Obama avesse difficoltà a relazionarsi con gli elettori del cuore industriale dell'America. Ma un importante leader sindacale che si batte per la vittoria del candidato democratico mi ha detto che le cose stavano cambiando". Inizia così l'articolo di Stephen Sackur, volto noto della televisione inglese BBC. Per Sackur Barack Obama non ha sempre avuto un rapporto naturale con i colletti blu, gli operai duri e puri dell'industria a stelle e strisce. Basta considerare alcuni dati di fatto: il suo essere di razza meticcia, con un'ottima istruzione universitaria, la sua professione di avvocato e il suo impegno di attivista. Eppure oggi, i sindacati americani – "tradizionali bastioni dei colletti blu d'America" sono tutti con Obama. Globalmente hanno speso 100 milioni di dollari per la campagna elettorale ed, entro il prossimo 4 novembre (giorno in cui si saprà il nome del prossime presidente) quella cifra sarà raddoppiata.

L'articolo di Stephen Sackur presenta il più acceso sostenitore di Obama, Richard Trumka, segretario e tesoriere della confederazione AFL-CIO. Si tratta di un minatore del sud della Pennsylvania "con baffi pugnaci e un messaggio combattivo". Secondo Trumka i sondaggi condotti dal sindacato dimostrano che nelle ultime settimane moltissimi iscritti hanno deciso di appoggiare Obama. Anche perché la crisi finanziaria – con le conseguenti preoccupazioni per posti di lavoro, salari, costo della vita – hanno spinto gli elettori a concentrarsi sui temi che hanno a che vedere con le proprie tasche e non con quelle delle grandi imprese. L'intervista dell'anchorman della BBC è andata in onda in una puntata di HardTalk.

NYTimes, Barack Obama for President
Non solo il sindacato americano. Anche la stampa si schiera. Proprio oggi, il New York Times, prestigioso quotidiano liberal della Grande Mela ha dato il suo appoggio ufficiale al candidato democratico. Con una convinzione: "Crediamo che Obama abbia la volontà e la capacità di costruire quell'ampio consenso politico che è essenziale a risolvere i problemi di questa nazione."
L'eredità della presidenza Bush è pesante: "due guerre, un'immagine globale spaventosa e un governo sistematicamente incapace di proteggere e aiutare i suoi cittadini" sia che si tratti di uragani che di sistema sanitario, di case, pensioni o posti di lavoro. Per tutte queste ragioni, afferma l'editoriale con cui si ufficializza l'endorsement: "la selezione del nuovo presidente è facile": dopo quasi due anni di campagna "il senatore dell'Illinois Barack Obama ha dimostrato di essere la scelta giusta".

Durissimo il giudizio sull'avversario repubblicano, John McCain che ha condotto una campagna basata sulle divisioni politiche, sulla lotta di classe e, persino, a tratti, sul razzismo. Una campagna con un carattere "particolarmente sgradevole", che guarda al passato, che risponde alla logica conservatrice dell'ognuno per sé e Dio per tutti. Diversa, diversissima la visione che Obama ha del ruolo e delle responsabilità del governo. Per quanto riguarda il sistema finanziario ed economico, a convincere il New York Times è la proposta di Obama di riforme di ampio respiro che serviranno a proteggere i cittadini e le imprese statunitensi. Convince pure, in politica estera, la volontà di ritirare le truppe dall'Iraq, di rafforzare le alleanze con l'Europa e con l'Asia. Soprattutto convince il rispetto di Obama per la costituzione e lo stato di diritto troppo spesso attaccati nell'era Bush di cui McCain è stato sostenitore attivo.  Barack Obama, in conclusione, ha tutte le qualità necessarie al 44° presidente degli Stati Uniti.

Argentina, dialoghi per salvare il paese dalla crisi
Dall'America del Nord a quella del Sud, passiamo in Argentina. Il sito de La Nación annuncia che la Confederación General de Trabajo, il principale sindacato del paese, ha accettato un congelamento virtuale dei salari fino alla fine dell'anno. In cambio il governo si è impegnato per evitare licenziamenti. Sono questi i punti principali dell'accordo raggiunto dopo l'ultimo incontro tra la CGT e il presidente Cristina Kirchner. Gli obiettivi su cui si è fondata l'intesa sono stati la continuità lavorativa, la produttività e la lotta al lavoro sommerso, tutti strumenti che governo e sindacato hanno intenzione di utilizzare per rispondere alla crisi economica. Continuando a monitorare la crisi internazionale, il ministero del lavoro sta proseguendo in questi giorni gli incontri con le varie categorie sindacali. Oggi è stata la volta del sindacato del commercio. Ieri, invece, i rappresentati dei lavoratori bancari hanno incontrato le loro controparti chiedendo di non procedere a riduzioni del personale, già mobilitato per la prossima settimana.

L'Argentina nazionalizza i fondi pensione. Servirà a scongiurare il crac?
La crisi è arrivata anche in Sudamerica, dove l'Argentina rischia un default-bis, ossia di replicare la l'insolvenza che nel 2001 mise le banche e il paese in ginocchio. In settimana – leggiamo da repubblica.it - L'indice azionario Merval "ha perso martedì l'11 per cento e ieri un altro 16 per cento, con ripercussioni anche sulle Borse europea, e in particolare su quella di Madrid scesa dell'8,25 per cento". Per correre ai ripari il governo guidato da Cristina Kirchner ha annunciato la nazionalizzazione dei dieci maggiori fondi pensione privati, i cosiddetti Afjp. I fondi erano nati nel 1994 in seguito alla privatizzazione del sistema previdenziale argentino, e alcuni di essi sono gestiti da banche europee o nordamericane."Le decisioni che abbiamo preso rientrano nel contesto internazionale per affrontare la crisi e serviranno a proteggere i nostri pensionati e i nostri lavoratori", ha dichiarato Kirchner. Gli oppositori dell'oficialismo, però, sostengono che il governo mira a saccheggiare i fondi per fare fronte alle difficoltà finanziarie, come avvenne nel 2001.

La vicenda dei fondi, però, è anche al centro di un caso giudiziario. Come informa il quotidiano Página 12, il 22 ottobre scorso diverse squadre di polizia hanno perquisito le sedi portegne dei fondi "alla ricerca di documentazione sulle operazioni effettuate negli ultimi giorni, oltre che sui portafogli d'investimento e la composizione societaria". La magistratura cerca prove che confermino (o no) il sospetto riguardo possibili manovre sottobanco. In particolare si sospetta che gli amministratori dei fondi "abbiano venduto buoni e azioni illegalmente non appena si era diffusa la notizia che il governo avrebbe nazionalizzato i fondi pensione". Un'operazione che avrebbe poi causato il crollo della Borsa e la svalutazione dei titoli. Gli inquirenti hanno cercato documentazione relativa ai movimenti di compravendita di titoli nelle 72 ore precedenti all'annuncio ufficiale della nazionalizzazione. L'accusa in piedi è di "possibile amministrazione fraudolenta da parte dei responsabili degli Afjp, non solo a danno dei propri clienti ma anche dello Stato (...) avvenuta dilapidando fondi in chiara violazione delle disposizioni vigenti".