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Alle 8 e 16 del 6 agosto 1945, l’aeronautica militare statunitense sgancia la bomba atomica Little Boy sulla città di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno Fat Man su Nagasaki. In Giappone le prime informazioni vengono date dall’annuncio pubblico della Casa Bianca a Washington, sedici ore dopo l’attacco nucleare.
Ai gravissimi effetti termici e radioattivi immediati (80.000 morti e quasi 40.000 feriti, più 13.000 dispersi) si aggiungeranno negli anni successivi gli effetti delle radiazioni, che porteranno le vittime a quota 250.000.
Un testimone, il padre gesuita Pedro Arrupe racconterà:
Ero nella mia stanza con un altro prete alle 8 e 15 quando improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un’esplosione formidabile simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi. Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c’era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un’enorme vampa. Non dimenticherò mai la mia prima vista di quello che fu l’effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l’un l’altra mentre si trascinavano lungo la strada. Continuammo a cercare un qualche modo per entrare nella città, ma fu impossibile. Facemmo allora l’unica cosa che poteva essere fatta in presenza di una tale carneficina di massa: cademmo sulle nostre ginocchia e pregammo per avere una guida, poiché eravamo privi di ogni aiuto umano. L’esplosione ebbe luogo il 6 agosto. Il giorno seguente, il 7 agosto, alle cinque di mattina, prima di cominciare a prenderci cura dei feriti e seppellire i morti, celebrai Messa nella casa. In questi momenti forti uno si sente più vicino a Dio, sente più profondamente il valore dell’aiuto di Dio. In effetti ciò che ci circondava non incoraggiava la devozione per la celebrazione per la Messa. La cappella, metà distrutta, era stipata di feriti che stavano sdraiati sul pavimento molto vicini l’uno all’altro mentre, soffrendo terribilmente, si contorcevano per il dolore.
“No, non ho rimorso - dirà Leslie Groves, direttore del Progetto Manhattan dal 1942 al 1946 - perché penso che noi, indubbiamente abbiamo salvato un gran numero di vite americane. Abbiamo salvato anche molte vite giapponesi perché se avessimo effettuato lo sbarco ci sarebbe stata una grandissima quantità di morti giapponesi, sicuramente maggiore di quelli uccisi a Hiroshima e il 9 agosto a Nagasaki con lo scoppio della seconda bomba atomica. Questo è un particolare che viene dai più trascurato” .
Scriverà Eisenhower nelle proprie memorie: “Nel 1945 il segretario alla guerra Stimson, visitando il mio quartier generale in Germania, mi informò che il nostro governo stava preparandosi a sganciare una bomba atomica sul Giappone. Io fui uno di quelli che sentirono che c’erano diverse ragioni cogenti per mettere in discussione la saggezza di un tale atto. Durante la sua esposizione dei fatti rilevanti fui conscio di un sentimento di depressione e così gli espressi i miei tristi dubbi, prima sulla base della mia convinzione che il Giappone era già sconfitto e che sganciare la bomba era completamente non necessario; e in secondo luogo perché pensavo che il nostro Paese dovesse evitare di sconvolgere l’opinione pubblica mondiale con l’uso di un’arma il cui impiego era, pensavo, non più obbligatorio come misura per salvare vite americane”.
È un’opinione ampiamente diffusa che i bombardamenti atomici non mirassero solo a all’ottenimento della resa del Giappone (il 15 agosto 1945 l’imperatore Hiroito dichiara la resa incondizionata, mettendo fine alla Seconda guerra mondiale), ma costituissero un monito all’alleato sovietico.
Barack Obama sarà il primo presidente Usa in carica a visitare la città di Hiroshima. “Perché veniamo qui? - dirà nell’occasione - Per toccare con mano quanto una terribile forza ha devastato questo territorio. Per rendere omaggio alle persone che sono morte qui. Siamo qui in questa città nel punto in cui esplose la bomba, per ricordare tutte le innocenti vittime di quella guerra e di quelle che verranno. Le loro anime ci parlano e ci ricordano cosa potremmo diventare. Dobbiamo ricordarci la storia che è fatta anche di tantissime cicatrici che sono simbolo di estremismi e imperi che sono caduti”.
La storia è fatta anche di cicatrici, di fatti anche orribili da ricordare perché non accadano mai più.
“La memoria - diceva Nella Marcellino - è forse la cosa più importante che noi abbiamo. Guai a noi se vivessimo senza ricordare le vicende della nostra vita, le vicende del contesto che ha attorniato la nostra vita, gli avvenimenti politici e sociali che vi sono stati. E guai a rifuggire dalla memoria e a cancellare dalla memoria non solo i momenti buoni, che in genere non si cancellano, ma anche i momenti meno buoni. La mia idea è che la memoria deve essere complessiva e deve riguardare sia le gioie, le cose buone, sia i periodi nei quali abbiamo sofferto di più e perché abbiamo sofferto, o perché hanno sofferto altri. Il fascismo la guerra, la Repubblica di Salò devono essere ricordati non solo per noi. Devono essere ricordati per le generazioni future. Guai a noi se dimenticassimo il passato e non lo raccontassimo perché troveremmo sempre qualcuno che vuol mistificare le cose reali per poter magari ricominciare anche oggi quanto fatto prima”.