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Cambiare rotta e concentrarsi su tagli rapidi e profondi alle spese militari; attuare politiche incentrate sull’uomo e sulla sicurezza comune che proteggano le persone e il pianeta e non l’agenda del profitto delle industrie delle armi; creare strutture di governance sulla cooperazione e sulla vera diplomazia, in cui i conflitti sono risolti attraverso il dialogo. Sono le richieste ai governi lanciate dalla Global Campaign on Military Spending in occasione della 12ª edizione delle Gdams (Giornate globali di azione sulle spese militari), in programma sino al 9 maggio.
Con lo slogan "La guerra ci costa un mondo" aderisce alla campagna la Rete italiana Pace e Disarmo, il cui coordinatore, Francesco Vignarca, spiega che tutto prende le mosse dall’osservazione di “quanto si investe per obiettivi di sviluppo sostenibile e quanto invece per le spese militari”. Nel 2021 i dati del Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ci dicono che si sono superati i 2.100 miliardi di dollari l’anno e ci si aspetta un incremento dai dati del 2022 che saranno pubblicati a giorni.
È chiaro quindi che alcune problematiche del mondo sono frutto di “scelte strutturali, perché si investe su una forma di sicurezza militare, che non è vera sicurezza, a discapito di tutti quegli avanzamenti civili, sociali economici che garantirebbero invece maggiore sicurezza: se la gente sta bene, non si fa la guerra, non cerca di migrare e non cerca di sbarcare il lunario”.
Quest’anno, anche alla luce dei risultati della Cop (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), si è voluto affrontare un aspetto specifico: “La vera crisi è quella climatica – afferma il coordinatore della Rete - e ha sfaccettature sociali, economiche, ecologiche. Una crisi dalla quale non ci si difende con le armi, che rendono ancora più critica la situazione. In passato le categorie erano i migranti economici e quelli vittime delle violazioni dei diritti umani e di guerre, ora abbiamo sempre più migranti per problemi climatici che scappano da situazioni insostenibili. Per questo chiediamo la riduzione degli investimenti militari, che producono vantaggi solamente per le industrie militari".
Il fenomeno globale della corsa al riarmo è stato osservato ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina, che ha solamente accelerato un percorso già intrapreso, anche con la raccomandazione della Nato ai Paesi membri per aumentare al 2% il budget nazionale per gli armamenti, come fa notare Salvatore Marra, responsabile delle Politiche europee e internazionali della Cgil. “Il nostro Paese – ricorda – si è adeguato alla tendenza europea e globale”.
Per spiegare i motivi dell'impegno del sindacato sul tema del disarmo Marra sottolinea che “in Europa, con eccezione della Germania (che ha un diverso potere negoziale in sede europea), per incrementare le spese in armi si prendono fette di budget dedicate a partite di bilancio di altri settori. In Italia, non potendoci indebitare ad libitum, dobbiamo riorganizzare i bilanci nazionali operando tagli significativi preminentemente a spesa sociale, pensioni, scuola e sanità. Non abbiamo dati precise, ma basta guardare l’ultimo documento di economia e finanza per capire quale strada si stia intraprendendo”.
Associazioni e sindacato si battono da anni per la riduzione delle spese militari, ma interessi economici globali costituiscono muri che spesso appaiono insormontabili, ma questo non è un motivo per desistere, ci dice Vignarca: “Quest’anno è stato frustrante, perché, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, noi pacifisti siamo stati additati come putinisti, mentre, al contrario, io considero Putin il nostro più grande nemico, in quanto con l’intervento in Ucraina ha sdoganato la retorica delle armi. Prima si nascondeva l’incremento delle spese in armi con le missioni di pace, motivi di sicurezza ed economici, ora i governi lo dicono chiaro: vogliamo armarci”.
Questo costituisce un altro buon motivo per continuare a dare voce a coloro che concordano con la riduzione delle spese militari, e sono tanti. “Quello delle armi non è un buon affare per la società, non ha basi concrete e nemmeno ideologiche, quindi – conclude Vignarca - metteremo sempre più energie nel nostro percorso”.