La crisi finanziaria irrompe nella campagna, cambiandone improvvisamente il sapore. Dopo settimane di discussioni astratte e pettegolezzi stucchevoli sulla candidata dei repubblicani alla vicepresidenza Sarah Palin, si torna a parlare di economia. Ed Obama, a detta di tutti, sembra avvantaggiarsene. “It’s the economy, stupid”, rispondeva un influente consigliere di Bill Clinton a chi si chiedeva quale fosse il tema su cui si giocava la possibilita’ di una vittoria del poco noto Governatore dell’Arkansas alle elezioni presidenziali del 1992. Un detto costantemente ripetuto in questi mesi e che ora, mai come prima, sembra descrivere la realta’ delle elezioni di novembre.
Il disagio di McCain
Poche settimane fa, la convention repubblicana si era risolta in una parata fideistica fatta di vecchie idee e convinzioni conservatrici. Occorre abbassare le tasse, ridurre l’intervento del governo nell’economia e nella vita degli americani, tagliare il bilancio federale ed aprire i mercati. Questa era la ricetta economica offerta da McCain e dalla sua aggressiva compagna di corsa ad una base repubblicana che sembrava nuovamente convinta della superiorita’ delle sue idee e, soprattutto, della loro popolarita’ fra gli americani. La crisi cambia tutto: un’amministrazione repubblicana si vede costretta a nazionalizzare un istituto finanziario dopo l’altro: prima i giganti semi-pubblici Fannie Mae e Freddie Mac ed ora Aig. La deregolamentazione dei mercati produce, quindi, il suo opposto: l’intervento pesante del governo e l’affacciarsi di una sorta di capitalismo pubblico d’emergenza, una vero e proprio incubo per l’opinione conservatrice. La campagna repubblicana, colpita al cuore, gioca ancora una volta la carta del populismo. Un McCain tuonante si impegna “a ripulire Washington e Wall Street” una volta ottenute le chiavi della Casa Bianca, mentre un’imbarazzata Palin si limita a deprecare l’utilizzo di soldi dei contribuenti per arginare i danni prodotti da quella che e’ definita – in modo piuttosto impolitico – come semplice corruzione.
Obama all’attacco, finalmente.
Per Obama, certo, non si tratta di mera corruzione. Ma del “fallimento di una filosofia economica” secondo la quale “dando di piu’ ai ricchi – con tagli fiscali e deregolamentazioni dei mercati finanziari – il benessere si diffondera’ poi in basso, fra tutti gli altri”. Non ha quindi alcun senso per i democratici, e’ questo il messaggio centrale della campagna, affidarsi alle ricette economiche di un partito che e’ all’origine della crisi attuale e che, non tollerando l’idea di una regolamentazione adeguata dei mercati e dell’economia finisce per creare le condizioni per un intervento statale pesante ed invasivo, come quello resosi necessario con l’esplodere della crisi finanziaria degli ultimi mesi. Obama tenta di sfruttare quindi al massimo gli effetti pesanti degli eventi di questi giorni sulla psicologia collettiva del paese, rispondendo alla convinzione diffusa che proprio dal giudizio sulle politiche economiche proposte dai due candidati dipenda il destino elettorale di alcuni dei cosiddetti swinging states, vale a dire gli stati dall’orientamento elettorale piu’ incerto. Stati quali Ohio e Indiana che, colpiti da dolorose ristrutturazioni produttive prima ancora che dagli effetti della crisi finanziaria, attraversano forse il periodo piu’ buio della loro storia. Ed e’ proprio in alcuni di questi che in queste ore un messaggio elettorale di due minuti vede Obama recitare punto per punto il proprio piano economico: ridurre le tasse sui redditi al di sotto dei 250.000 dollari, investire di piu’ nell’energia, nelle infrastrutture e nell’educazione, regolamentare in modo rigoroso i mercati finanziari, liberare il governo federale dall’assedio di lobbisti ed interessi organizzati che inquinano la politica economica. Piu’ economia reale e meno scommesse finanziarie: di questo ha bisogno l’America, dice Obama, e non di una commissione del congresso per studiare le origini della crisi finanziaria, come proposto da McCain.
Un’altra tappa nel declino delle idee conservatrici?
La crisi sembra contribuire al clima di guerra culturale che si respira in questi mesi negli Stati Uniti. A novembre sara’ in gioco non solo la presidenza ma la sopravvivenza di un’epoca nella quale i valori dominanti – e non solo fra i repubblicani – erano quelli della rivoluzione liberista. Ad emergere lentamente sarebbe “un altro paese” secondo Mark Mellman, il capo di uno dei piu’ importanti istituti di rilevazione, secondo il quale questi giorni tormentati segnerebbero semplicemente una nuova tappa nel lungo declino delle idee conservatrici nell’opinione pubblica americana. “Se negli anni novanta – scriveva Mellman - piu’ del sessanta per cento degli elettori manifestava la propria preoccupazione per ‘un governo federale che voglia fare troppo, non lo faccia bene ed aumenti le tasse, quest’anno, il sessanta per cento di loro ha scelto l’altra possibile risposta esprimendo il timore che ‘il governo federale non faccia abbastanza per aiutare le persone a risolvere i problemi cui si trovano di fronte”. In sintesi, ad una maggioranza ostile all’intervento pubblico nell’economia se ne sarebbe sostituita una nuova convinta della sua necessita’. A tramontare, secondo un democratico di lungo corso come Gary Hart, sarebbe un’America nella quale “per anni abbiamo consumato piu’ di quello che producevamo e speso piu’ di quello che guadagnavamo: e’ stata come una lunga vacanza.” Una vacanza che ora sembra davvero finire, ed in modo molto doloroso, in un paese in cui e’ dai mercati finanziari che dipendono i destini pensionistici di centinaia di milioni di persone. Ad essere in gioco non sono solo i loro risparmi, ma un modo di pensare che da queste parti era talmente diffuso da essere percepito come naturale. Una grande occasione per i democratici americani e forse anche per la sinistra europea.