Prendi un giovane italiano oggi: studia, si diploma, poi continua anche il percorso e si laurea. Ma quando si affaccia sul mondo del lavoro, ha molte meno chance di trovare un’occupazione rispetto a un giovane residente in un altro Paese europeo.

È un primato al ribasso il nostro, evidenziato dal recente report Eurostat, l’istituto di statistica europeo: la mancanza di opportunità lavorative per neodiplomati e neolaureati subito dopo il termine degli studi. In numeri, solo il 67,5 per cento di chi ha 20-34 anni e un titolo secondario o terziario trova impiego a distanza di tre anni, contro l’83,5 per cento di media europea.

Attrarre giovani qualificati 

Un andamento, quello europeo, che è in costante aumento: nel 2013 il tasso era del 74,3 per cento, con un’eccezione rappresentata nel 2020 dalla pandemia (78,7 per cento), in cui è stata osservata una diminuzione di 2,3 punti percentuali rispetto al 2019 (81).

Prendere una qualifica in Italia, quindi, non equivale all’inserimento lavorativo immediato. Mentre Malta, con il 95,8 per cento, Paesi Bassi, 93,2, e Germania, 91,5 per cento, sono modelli di eccellenza per capacità di attrarre i nuovi giovani qualificati nel mondo del lavoro, in fondo alla classifica dei tassi di occupazione c’è l’Italia, fanalino di coda dopo Grecia con il 72,3 per cento e Romania, 74,8 per cento.

Problema culturale

“Innanzitutto c’è un problema di carattere culturale che riguarda le aziende – afferma Lara Ghiglione, segretaria confederale Cgil –. Mentre negli altri Paesi l’intelligenza, la sensibilità, le capacità dei giovani sono vissute e percepite come valori che arricchiscono, da noi assumere un giovane è considerato un peso, perché lo devi formare e inserire usando le risorse dell’azienda. Mentre non si tiene conto del cambiamento positivo che può apportare. Quello che riscontriamo è un incremento dell’occupazione degli under 35 soprattutto quando ci sono risorse statali dedicate, una politica dei bonus che continuiamo a criticare perché non aumenta le assunzioni ma le sposta. E si traduce in questo meccanismo: giovane, ti assumo perché non comporti un peso economico. Tutto ciò ci impedisce di essere competitivi”.

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Possibilità di carriera

Austria, Irlanda, Islanda, Norvegia, Ungheria, Svezia e Belgio raggiungono buoni risultati; si trovano quindi nel Nord Europa gli Stati in cui c’è maggiore probabilità di impiego per i giovani che terminano gli studi, Paesi in cui spesso gli italiani vedono di buon occhio un trasferimento.

La distanza tra noi e gli altri Paesi Ue non si ferma solo alle possibilità di assunzione, perché si estende anche a quelle di carriera: non è inusuale vedere all’estero dirigenti di 30-40 anni che tagliano le tappe in modo molto rapido.

Giovani in fuga

“Naturale, poi, che se non mi assumono o lo fanno con contratti precari, se prendo il 30 per cento in meno di salario rispetto ai miei coetanei europei, non vengo valorizzato e non ho prospettive di carriera, me ne vado all’estero – prosegue Ghiglione –. La fuga di intelligenze, di neolaureati ma anche di giovani con alte professionalità, è un fenomeno che l’Italia vive da anni”.

Salari bassi 

Circa 4 neolaureati italiani su 10 che espatriano hanno almeno una laurea. Tra il 2013 e il 2022 sono andati via 352 mila giovani tra i 25 e i 35 anni, 132 mila quelli con almeno un titolo accademico (fonte Istat). Attratti da una maggiore stabilità e da opportunità più vantaggiose, paga e condizioni di lavoro, spesso scelgono Svizzera, Germania, Spagna e Francia.

D’altra parte non è un segreto che lo stipendio di un neolaureato italiano sia piuttosto basso, circa 1.300 euro, come rivela la nuova indagine Almalaurea, il consorzio di cui fanno parte 82 atenei: rispetto al 2021 le retribuzioni figurano in termini reali in calo del 4,1 per cento per i laureati di primo livello e del 5,1 per quelli di secondo livello.

Divari territoriali e di genere

“Un altro aspetto da considerare sono i divari territoriali e di genere – conclude Ghiglione –: nelle regioni del Mezzogiorno i giovani trovano meno lavoro, sono molto più precari, spesso hanno occupazioni irregolari e poiché le discriminazioni si sommano, come anche le donne hanno prospettive davvero limitate. L’autonomia differenziata, alla quale ci stiamo opponendo con un referendum, non farà altro che ampliare questi divari e peggiorare la competitività. Lo stesso vale per la precarietà, per combattere la quale abbiamo raccolto un milione di firme proponendo quattro quesiti referendari. Quello che andrebbe fatto subito è investire nel pubblico: alcune lauree troverebbero uno sbocco lavorativo utile per il Paese e per garantire diritti costituzionali, penso alla sanità, aumentando l’occupazione dei giovani”.

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