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Ci sono validi motivi per dire no alla vendita di armi all’Egitto e innanzitutto c’è la nostra Costituzione che ripudia la guerra e rimanda ad accordi e convenzioni internazionali. Come esiste anche una legge nazionale (la 185 del 1990) che proibisce all’Italia di vendere armi a Paesi coinvolti in guerre - come l’Egitto lo è in Libia - e che perpetrano comprovate violazioni di diritti umani in base a trattati internazionali - e anche in questo caso è interessato il Paese di Abtel Fattah al-Sisi. Sono per altro violazioni che noi abbiamo pagato con la vita di un nostro connazionale, ma che riguardano migliaia di cittadini egiziani, come dimostrano le notizie degli ultimi giorni che parlano di una ragazza arrestata, torturata e violentata nel 2017, perché accusata di mettere a rischio la sicurezza nazionale, e che si è suicidata proprio per l’insopportabile peso di quanto le era accaduto. Sono casi che ci parlano di repressioni e violenze di Stato effettuate in modo sistematico e diffuso.
È inaccettabile che un Paese come l’Italia, che si definisce democratico e civile, faccia commercio di armi con questi governi, motivo per il quale noi promotori della campagna Stop armi all’Egitto (alla quale la Cgil partecipa dall’interno della Rete della Pace con Amnnesty international e Rete disarmo) chiediamo alle nostre istituzioni di rispettare la legge e soprattutto praticare quel principio che prima tutela i diritti fondamentale delle persone come salute, libertà e giustizia e solamente poi ragiona su interessi economici e strategici. Mai deve essere il contrario, andando in deroga ai diritti fondamentali, come invece abbiamo visto nel caso di Giulio Regeni. Il giovane ricercatore è morto a causa delle torture con una molto probabile responsabilità - per essere cauti - da parte degli apparati statali di un Egitto che non garantisce giustizia e verità e, quindi, non può essere partner per affari commerciali che soprattutto implichino la compravendita di armi. Conosciamo bene gli interessi strategici italiani nel Mediterraneo, ma qual è il limite di coerenza e di rispetto delle nostre leggi e dei nostri valori fondanti rispetto a quelle che sono le sfide cha abbiamo di fronte?
Come Cgil siamo impegnati dal 2011, quando hanno iniziato a muoversi la società civile, i giovani, le donne, i lavoratori e le lavoratrici che si sono resi protagonisti di quella che abbiamo chiamato – forse in modo semplice e non corretto – la stagione delle primavere arabe. Abbiamo assistito e sostenuto queste proteste che poi sono scaturite in rivoluzioni di piazza e che, a parte il caso della Tunisia, non sono però riuscite a creare le condizioni di rinnovamento strutturale di quei Paesi. Con l’Egitto, in particolare, abbiamo sempre seguito e sostenuto le organizzazioni di appoggio ai lavoratori, perché parlare di sindacati indipendenti è sempre stato abbastanza complicato. Nelle aree industriali del Paese ci sono sempre state forme di protesta molto importanti proprio perché le condizioni di lavoro sono quasi di carattere medievale, non esiste libertà di associazione, il lavoro informale raggiunge livelli oltre 70 per cento, in uno Stato repressivo e con un sindacato completamente sotto il controllo del regime.
Come Cgil abbiamo sempre sostenuto il Center for trade unions & workers services, l’unico soggetto che ha sempre svolto la funzione di promuovere la libertà e di supportare i lavoratori. Il Centro è stato un punto d’appoggio per Giulio Regeni, quando svolgeva la sua ricerca accademica in Egitto, che ci porta anche alla questione della vendita delle armi al governo del Cairo, un governo che non garantisce la protezione di diritti e libertà ai propri cittadini, nei confronti dei quali registriamo dure repressioni: dalla chiusura di tutte le forme associative, all’arresto e alla tortura di centinaia di giovani, tanto che si parla di circa 600 persone scomparse, i nuovi desaparecidos. In queste condizioni non è possibile continuare a tenere separata una real politic legata a interessi economici, investimenti, alleanze nell’area mediterranea, da un Paese come l’Egitto che ha un apparato di polizia e un sistema di sicurezza che intervengono in modo diretto nella vita sociale reprimendo e negando con la violenza diritti e libertà.
Certo è che quello che noi non possiamo fare è essere indifferenti, tacere e fare finta che ci sia un solo corso della storia: ognuno di noi deve prendere posizione nei luoghi dove vive, negli ambienti che frequenta, perché va cambiata l’opinione pubblica, che siamo tutti noi. Se stiamo zitti e facciamo spallucce pensando che queste siano scelte ineludibili, non ci saranno più limiti né barriere rispetto a decisioni che ci portano ad alimentare regimi forieri di violenza e terrore. Tolleriamo tutto questo finché è fuori da casa nostra, ma, quando arriverà dentro i nostri confini, sarà troppo tardi. Per prevenire queste situazioni occorre allora che ognuno nel proprio ambito prenda posizione e si mobiliti.
Sergio Bassoli, Aree politiche Cgil e coordinatore Rete della Pace