Da dieci anni a questa parte, prima ancora della scoppio della guerra in Ucraina, le nostre economie in Europa hanno preso una preoccupante strada di aumento della spesa militare, della militarizzazione dell'economia, dell'industria e della ricerca. Per tutti i paesi dell'Unione europea che fanno parte della Nato la spesa militare negli ultimi 10 anni è aumentata del 50% in termini reali, con un incremento molto più rapido di quello che è stato registrato per la spesa pubblica complessiva.

A questo si aggiungono le spese per le armi nucleari con i dati resi noti dalla Rete italiana pace e disarmo: la spesa globale cresce ancora e nel 2023 ha raggiunto 91,4 miliardi di dollari, 10,7 miliardi in più rispetto all’anno predente secondo il Rapporto della campagna internazionale ICAN "Surge: 2023 Global nuclear weapons spending". Nel 2023 i nove Stati dotati di armi nucleari hanno speso 2.898 dollari al secondo. Dati che fanno temere per la sicurezza globale in quanto rappresentano una vera e propria minaccia. 

Lo studio

Mario Pianta, professore di Politica economica alla Scuola Normale superiore a Firenze, è coautore dell’e-book “Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia” realizzato da Sbilanciamoci! e Greenpeace, ci spiega che “in particolare, l'aumento della spesa militare è stato interamente dedicato all’incremento dell'acquisto di armamenti, perché gli eserciti stanno diventando sempre più tecnologici, sempre più attrezzati per colpire avversari a distanza in modo sofisticato e ovviamente buona parte di questi armamenti acquistati dalle forze armate europee viene importato dagli Stati Uniti”.

“In un Paese come l'Italia – prosegue – abbiamo quindi avuto una dinamica dell'economia segnato da stagnazione e mancanza di spesa pubblica in campo ambientale e sociosanitario e allo stesso tempo invece una forte dinamica di aumento della spesa militare. Colpisce quindi il fatto che, mentre gli investimenti pubblici restavano fermi, gli investimenti privati, gli investimenti in campo militare, anche in un Paese come l'Italia, sono aumentati molto rapidamente, 5 o 6 volte più rapidamente che per il resto delle attività economiche”.

Il volume del quale Pianta è coautore racchiude uno studio molto dettagliato dell’aumento della spesa militare e dei suoi effetti economici e prova che “spendere per il settore militare, anziché estendere la spesa per l’istruzione e la sanità, è un cattivo affare. L'effetto moltiplicativo di questa spesa pubblica è più basso nel settore delle armi proprio perché c'è una forte concentrazione in poche grandi imprese e una forte dipendenza dagli Stati Uniti rispetto all'effetto espansivo che può avere un aumento della spesa pubblica in campi civili, in particolare in campo sociale e ambientale”.

Vengono inoltre ricostruiti i cambiamenti nel settore dell'industria militare che “stanno prendendo forme particolarmente preoccupanti in Italia, con Leonardo che concentra buona parte delle produzioni militari, ma si comporta come una grande società multinazionale con attività su scala internazionale, forti legami con gli Stati Uniti e anche con un forte orientamento finanziario. Dallo scoppio della guerra in Ucraina le quotazioni di Borsa di tutte le imprese militari sono schizzate più in alto che non quelle della media delle imprese quotate in Borsa in diversi Paesi”.

Quali politiche 

Pianta porta poi un esempio di esperienza di riconversione come quella della Valsella Meccanotecnica, la produttrice di mine di Brescia che, “dopo il Trattato internazionale che metteva al bando le mine antiuomo, ha dovuto per fortuna riorganizzarsi su produzioni civili. Non mancano le documentazioni delle lotte in Sardegna contro l'espansione della Rwm, la multinazionale tedesca che produce bombe che alimentano oggi le guerre in corso nel Mediterraneo e nel Medio Oriente”.

Importante è la documentazione delle esportazioni di armi, un approfondimento di “uno degli aspetti più preoccupanti della militarizzazione che riguarda le tecnologie digitali, con una scivolata delle piattaforme digitali a cominciare da Amazon, Google e Microsoft che hanno sempre più contratti con il ministero della Difesa degli Stati Uniti”.

“Le nuove tecnologie si stanno spostando verso applicazioni militari che ovviamente trasformano la natura della guerra e rendono ancora più pericoloso e problematico il quadro internazionale – afferma l’economista -. C’è un nesso tra tutto quanto emerge dal nostro lavoro e l'avanzata delle destre. Siamo in un contesto in cui la politica è arretrata, mentre c'è la possibilità di pensare che le iniziative degli Stati si possano muovere sul terreno della cooperazione internazionale per la soluzione delle controversie, ricercando mediazioni che diano delle risposte alle esigenze legittime sia dei cittadini che dei singoli popoli”.

Il punto è che “si è passati da un riconoscimento del predominio della politica nell'affrontare questi nodi al tentativo di risolvere le cose con strumenti sempre più aggressivi, con azioni unilaterali che trascurano e calpestano i principi del diritto internazionale. Questo è avvenuto con la guerra in Ucraina, con l'invasione di Israele a Gaza, ma vale anche per altre situazioni. Soprattutto le potenze militari maggiori rifiutano accordi per limitare la corsa al riarmo e allo spazio”.

A preoccupare è quindi il ritorno dell'idea che ci sia una soluzione militare ai problemi politici, mentre la storia è colma di esempi che ci dicono il contrario. “L'idea che le armi possano portare non tanto alla pace, quanto a un ordine ben definito è una pura illusione – prosegue Pianta-. Le armi portano soltanto morti, distruzioni e instabilità creando le condizioni per conflitto ulteriori. La prospettiva dovrebbe invece essere quella di ricostruire un ordine che non sia fondato sulla legge del più forte”.

Inesorabilità delle guerre?

Ci sono teorie secondo le quali le guerre sono da sempre “un’arma di risoluzione” delle crisi economico-finanziarie, ma il docente della Normale di Firenze fa notare che “è chiaro che nel breve periodo per le potenze economiche occidentali la guerra, come il colonialismo, rappresentava una possibilità di espansione di nuovi settori di aumento della spesa e di accelerazione di questo percorso di sviluppo industriale, ma oggi non è più così abbiamo un quadro internazionale completamente diverso, benché una somiglianza ci sia”.

Oggi viene sempre meno l'ordine internazionale del dopo guerra fredda che vede gli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale: “Ovviamente c'è l'emergere della potenza economica della Cina che per fortuna non ha ancora preso la strada di un esplicito confronto in campo militare con gli Stati Uniti e bisogna sperare che non si apre una fase di guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, però in questo contesto di indebolimento degli degli Usa e di prolungate crisi economiche e finanziarie è chiaro che l'instabilità aumenta e si aprono spazi in cui altri paesi come Israele, Russia e altri Paesi possono pensare di raggiungere degli obiettivi militari particolari”. 

Ordini internazionali fragili e incapaci di mantenere la stabilità, un'economia traballante e che non assicura la crescita danno come risultato sulle persone “un aumento di insicurezza, paura e preoccupazione sulle prospettive future anche di miglioramento delle condizioni economiche sociali – conclude Pianta –. Il bisogno di sicurezza, i nazionalismi e le corse al riarmo vanno quindi nella direzione di dare risposte illusorie e di costruzione del consenso nella politica nazionale e internazionale”.