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Il destino di Detroit sembra farsi sempre più cupo. Martedì scorso i titoli della General Motors sono precipitati del 13%. Mentre le vendite a ottobre hanno subito una contrazione del 45%. L’inimmaginabile – la bancarotta della più grande impresa automobilistica del paese– è ora, secondo gli analisti, nell’ordine delle cose possibili. GM, che ha registrato perdite per 4,2 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre, sarebbe una delle vittime eccellenti di un mercato creditizio congelato, nonostante l’iniezione di denaro pubblico prodotta dal piano di salvataggio del settore finanziario approvato dal Congresso lo scorso mese di ottobre.
Le altre due grandi case automobilistiche di Detroit – Chrysler e Ford – se sembrano ancora lontane dal cupo destino della loro sorella maggiore, certo non godono di ottima salute: le perdite di Ford nell’ultimo trimestre ammontavano a tre miliardi di dollari. Gli effetti liberati da un ulteriore grave approfondirsi della crisi del settore sarebbero devastanti. A rischio non sarebbero solamente i 239.341 impiegati delle cosiddette Big Three – vale a dire le tre imprese citate – ma un indotto che secondo uno studio del Center for Automotive Research arriverebbe ad oltre tre milioni di addetti, il 5% degli occupati nell’intero comparto manifatturiero del paese. Un’apocalisse economica che la nuova amministrazione preferirebbe ovviamente evitare. In particolare, gli effetti del collasso delle Big Three sul già travagliato Midwest, la regione del paese a più consistente presenza manifatturiera, sarebbero al di là dell’immaginabile. In stati quali il Michigan, un settore manifatturiero tormentato dall’inasprirsi della competizione internazionale potrebbe raggiungere il punto di non ritorno qualora le grandi imprese automobilistiche di Detroit si trovassero a percorrere la strada del fallimento e della dismissione.
Dal bail-out di Wall Street al bail-out di Detroit?
La leadership democratica del congresso ha annunciato la propria volontà di intervenire immediatamente a sostegno delle grandi imprese automobilistiche. L’idea è quella di rendere subito disponibili i 25 miliardi di dollari in prestiti per la produzione di automobili a basso consumo già stanziati dal Congresso e, soprattutto, di convertire parte della spesa del gigantesco piano di salvataggio del settore finanziario – il cui importo complessivo è di 700 miliardi di dollari – in interventi a sostegno delle Big Three.
Un piano largamente condiviso dal Presidente eletto. Obama nella sua prima conferenza stampa dopo il voto aveva espresso tutta la sua preoccupazione per l’approfondirsi della crisi del settore. “L’industria automobilistica è il pilastro della produzione manifatturiera americana e una parte fondamentale nel nostro tentativo di ridurre la nostra dipendenza energetica”, aveva detto. Per questa ragione Obama chiedeva al suo economic advisory board di disegnare nuove politiche che aiutassero “l’industria automobilistica a resistere alla crisi finanziaria ed a riuscire nella produzione di automobili ad alta efficienza energetica qui negli Stati Uniti”. L’enfasi – sia da parte della leadership democratica al Congresso che da parte del ristretto gruppo di consiglieri di Obama chiamato a gestire la delicata fase di transizione - è tutta per un intervento in grande stile che ponga condizioni molto chiare al management di Detroit.
Fra le condizioni che i democratici vorrebbero imporre ci sarebbero la cessione da parte delle imprese automobilistiche di partecipazioni azionarie allo stato, l’innalzamento degli standard ambientali ed energetici dei prodotti e infine l’estensione alle imprese automobilistiche delle regole restrittive sui compensi del management cui sono sottoposte le istituzioni finanziarie e creditizie che accedono ai 700 miliardi di dollari del piano di salvataggio del settore finanziario. Un piano che avrebbe comunque bisogno del consenso del presidente in carica e della minoranza repubblicana che al Senato potrebbe ricorrere all’ostruzionismo.
I repubblicani non sembrano comunque compatti nell’ostilità a un intervento federale. Al di là di voci discordi nella stessa minoranza repubblicana al congresso, l’intera assemblea legislativa del Michigan – repubblicani compresi – ha inviato lo scorso dieci novembre una lettera al Segretario al Tesoro Henry Paulson nella quale si chiedeva l’immediato intervento federale a sostegno della produzione automobilistica nazionale.
I sindacati confidano in Obama
Sindacati e management confidano nella capacità della maggioranza democratica e di Obama di imporre all’amministrazione uscente un intervento immediato. In un incontro con Nancy Pelosi ed Henry Reed – i leader della maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti e al Senato - la UAW (il sindacato dei lavoratori del settore automobilistico) e la direzione di GM, Ford e Chrysler hanno chiesto la concessione di un prestito di emergenza di 50 miliardi di dollari per evitare il collasso. Per il Presidente UAW, Ron Gottelfinger, “c’è urgente bisogno dell’intervento federale non solo per i nostri membri, ma per milioni di lavoratori e pensionati e per migliaia di imprese che dipendono dal settore automobilistico”. Per Gottelfinger gli effetti del collasso coinvolgerebbero non solo le tre grandi imprese di Detroit ma anche la produzione americana dei loro principali concorrenti: “Se fallisse una delle grandi case automobilistiche del paese, l’intero indotto sarebbe in pericolo. Gli effetti coinvolgerebbero chiunque produca automobili negli Stati Uniti – incluso Toyota, Honda e Nissan – perché sono molte le imprese che acquistano servizi e componenti dallo stesso gruppo di aziende fornitrici”.
La crisi, una grande occasione?
Per Obama e la maggioranza democratica la gestione della crisi del settore automobilistico è il primo vero banco di prova dopo il voto. Chi aspetta con ansia ogni mossa del presidente eletto per capire quanto il paese sia vicino a quello che sulla stampa americana viene ormai definito come il New New Deal, non potrà che vedere in questa prima prova una sorta di introduzione alla politica economica della nuova amministrazione. Congelato temporaneamente il dibattito su un nuovo massiccio intervento a sostegno dell’economia che dovrebbe contenere investimenti in grandi progetti infrastrutturali, trasferimenti agli stati a tutela dei servizi e l’estensione dei trattamenti di disoccupazione e di assistenza alimentare, la crisi di Detroit è diventata il protagonista principale del confronto sui destini economici del paese. Ai democratici la responsabilità di uscire dalle secche dell’antico dibattito fra intervento e non-intervento, in nome di un nuovo e qualificato intervento pubblico nell’economia.
Ripetere le ricette del passato – interventi come quelli delle amministrazioni Carter e Reagan votati alla mera protezione della produzione nazionale - non rischierebbe solo di essere inefficace nell’invertire la rotta delle Big Three, il cui mercato, ora meno del 50% del totale nazionale, è in costante contrazione da decenni. Ma rischierebbe anche di contraddire il messaggio di cambiamento al centro della campagna di Obama. Ed è questo il suggerimento di un sostenitore della futura amministrazione, Douglas Olin, già membro delle amministrazioni Clinton, che dalle colonne del Los Angeles Times auspicava ieri che le Big Three si guadagnassero il piano di intervento federale con un deciso cambiamento del loro modello produttivo. “Se 300 milioni di americani – scriveva Olin – presteranno dei soldi per salvare l’industria automobilistica, sembra del tutto ragionevole che questa assuma posizioni socialmente più responsabili su energia, ambiente e sicurezza”. E’ arrivato il momento per Detroit, continuava Olin, di produrre automobili che riducano drammaticamente consumi ed impatto ambientale. Musica per le orecchie di un futuro presidente che ha fatto della rivoluzione energetica uno dei temi centrali della propria campagna.