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Navi cariche di grano bloccate nel porto di Odessa. Silos traboccanti di frumento che aspetta di essere distribuito. Ipotetici corridoi per fare transitare carichi di cereali verso i Paesi del Nord Africa. Le cronache dal fronte ucraino si sono arricchite in queste settimane di informazioni e dettagli su un’altra guerra, quella del grano, che minaccerebbe la sicurezza alimentare di mezzo pianeta, terrebbe in scacco la produzione italiana di pane e pasta, e starebbe causando gli aumenti vertiginosi dei prezzi di materie prime e prodotti trasformati. Ma le cose non stanno esattamente in questi termini.
Il granaio d’Europa
Partiamo dalla prima tesi che si dà per scontata: l’Ucraina è il granaio d’Europa. Non è così. Era vero agli inizi dell’Ottocento, ma non oggi. E non lo sono neppure la Russia e tutti i paesi riconducibili all’orbita ex sovietica: non sono l’ombelico del mondo da un punto di vista del commercio alimentare mondiale. I dati possono aiutarci a capire. Russia e Ucraina producono il 14 per cento del grano tenero mondiale (10+4) e il 4 per cento del mais (1+3), e poco grano duro. Per l’Italia rappresentano un mercato tutto sommato marginale: da loro importiamo il 3,2 per cento del grano tenero e il 2,5 del grano duro. Eppure, il prezzo del primo è cresciuto del 70 per cento rispetto al 2021 e quello del secondo dell’85 per cento, con effetti che si fanno sentire sul prezzo di pane e pasta. Quindi questi aumenti dipendono solo in minima parte dal conflitto.
La speculazione finanziaria
“In Italia e in Europa non c’è un problema di quantità – sostiene Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea al dipartimento di scienze politiche dell’università di Pisa -. La produzione mondiale di cereali è di 2.800 milioni di tonnellate e i grandi esportatori, Russia, Canada, Stati Uniti, in parte Australia, la stessa Unione Europea, sono nelle condizioni di supplire con notevole facilità alla carenza causata dal blocco della materia prima in Ucraina. Stiamo parlando di 20-30 milioni di tonnellate ferme nei porti. Quello che ha fatto schizzare alle stelle i prezzi, come ha rilevato anche la Fao, non può essere quel pezzetto di produzione ucraina”.
Allora qual è il problema? “Sostanzialmente dipende dalla speculazione finanziaria che è iniziata ben prima della guerra – prosegue il professor Volpi -. Il mercato dei cereali, come quello dell’energia, vive di un’aspettativa dell’andamento, con vere e proprie scommesse che determinano il prezzo. Se c’è un conflitto, se ogni giorno si ricorda che il grano ucraino è bloccato, se si annunciano ulteriori restrizioni alla produzione, le scommesse saranno al rialzo, sul fatto che i prezzi tenderanno ad aumentare”.
Le scommesse sul grano
È ciò che sta accadendo in questa fase. I fortissimi rincari, 410-420 dollari a tonnellata è la quotazione attuale, non sono proporzionali alla penuria di materia prima. Sono solo frutto di un’aspettativa futura. “Questi contratti sono i cosiddetti ‘derivati’: lo scommettitore li compra oggi a 30 e li rivende domani a 40. Si tratta di un’enorme quantità di contratti venduti da soggetti che non hanno niente a che fare con il grano, banche di investimento, fondi hedge. Non è il grande panificatore europeo o americano, sono soggetti fuori dai circuiti della produzione che usano i titoli derivati per fare speculazione finanziaria, a ogni step sempre più raffinata. Una pratica che fino agli anni Novanta non era consentita su questi beni perché l’Organizzazione mondiale del commercio non lo ammetteva. Poi le normative hanno liberalizzato il settore, consentendo l’utilizzo di strumenti finanziari anche per beni come il grano che alimentano l’intera popolazione mondiale”.
Che cosa rischia di affamare il mondo
Non è la quantità di produzione che rischia di affamare il mondo, dunque, ma il livello dei prezzi. E poi altri fattori: l’improvvisa decisione dell’India di fermare le esportazioni di grano, che ha portato altri Paesi a tenersi ben stretto quello che hanno in casa o a procedere con accaparramenti, come sta facendo la Cina, mosse che hanno fatto salire ulteriormente le quotazioni. “Si tratta di meccanismi speculativi che non c’entrano niente con l’alimentazione, si fanno profitti sulla pelle delle persone – dichiara Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil, la categoria del sindacato che rappresenta i lavoratori dell’agro-industria -. Gli organismi internazionali dovrebbero intervenire su questi fenomeni, per garantire il cibo a tutti e impedire che la finanza possa avvantaggiarsi con un simile bene primario”.
Economie fragili
Secondo l’agenzia dell’Onu World Food Programme, in Africa Orientale, dove grano e prodotti a base di grano rappresentano un terzo del consumo medio di cereali, il 90 per cento delle importazioni proviene da Mosca e Kiev. Per la Fao, Kazakhstan, Mongolia, Armenia, Azerbaijan e Georgia dipendono quasi al 100 per cento dal grano russo, mentre hanno una dipendenza tra il 50 e il 100 per cento Bielorussia, Turchia, Finlandia, Libano, Pakistan e molti Paesi africani. L’Egitto comprava dall’Ucraina il 22 per cento del proprio fabbisogno, la Tunisia il 49, la Libia il 48, la Somalia il 60, il Senegal il 20. Poi ci sono i Paesi del medio e lontano Oriente: Turchia, Bangladesh, Indonesia, Cina, Corea del Sud, Vietnam.
Mosca si finanzia la guerra
“La Russia sta continuando a esportare, anzi ha aumentato le esportazioni, come per il gas, e lo fa a prezzi più alti: in questo modo si finanzia il conflitto” precisa Volpi. Un incremento del 60 per cento per la precisione, da marzo scorso, cioè da quando è iniziata la guerra, di cereali diretti in Turchia, Egitto, Libia, Nigeria. “I Paesi del Sud del mondo – aggiunge Mininni -, che hanno economie fragili incapaci di sostenere le turbolenze dei mercati e delle crisi, non sono produttori, non riescono a incrementare l’autoproduzione e neppure ad accaparrarsi la materia prima sui mercati, cioè di comprarla e stoccarla. Il conflitto per loro è stata solo un’aggiunta a problemi strutturali che si erano già manifestati, primo fra tutti l’aumento del costo dell’energia e dei trasporti che si era affacciato a settembre dello scorso anno, anche questo dovuto a speculazioni, E poi la crisi climatica che ha provocato la siccità in Canada, dove è andato distrutto l'80 per cento della produzione. Insomma, quello che gli economisti hanno definito una tempesta perfetta”.
In quelle aree del mondo nelle prossime settimane e mesi potrebbero tornare le rivolte del pane a cui abbiamo assistito nel 2008, vedremo ondate di persone che lasceranno le loro terre, una nuova migrazione dovuta alla fame, indotta dalla speculazione internazionale e dalla crisi climatica”. Secondo i calcoli della Fao le persone nel mondo che rischiano di soffrire la fame saliranno a 440 milioni. Una crisi che viene da lontano e solo in minima parte è dovuta alla guerra ma che non riguarda l’Italia e neppure l’Europa.
Attacco alle politiche agroecologiche
Sebbene l’aumento dei prezzi si senta anche da noi, complici i rincari dell’energia e dei carburanti e l’infiammata dell’inflazione, è bastato parlare di penuria alimentare per riportare in vita la discussione sulla possibilità per i Paesi europei di importare grano Ogm che attualmente è vietato dalle normative dell’Unione e che è prodotto da soli quattro gruppi monopolisti. Una strada finora chiusa che potrebbe portare alla revisione del Green New Deal europeo.
“Purtroppo le guerre sono sempre l’occasione per fare in modo che succeda di tutto – dice Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra! e autore del volume “Chi possiede i frutti della terra” -. Non c’è un problema di crisi alimentare in Europa, che è sostanzialmente autosufficiente, eccezion fatta per l’olio di girasole, che importiamo e che è usato come sostituto dell’olio di palma. C’è un problema di inflazione e di aumento dei costi. Eppure è in corso un attacco senza precedenti alle politiche ambientali per l’agricoltura, teso a indebolire la transizione verso l’agroecologia decisa dall’Europa, con la scusa che i vincoli ecologici frenano l’aumento della produzione interna. Dopo la Seconda guerra mondiale gli aiuti allo sviluppo hanno portato in giro per il mondo semi ibridi e chimica, una declamata rivoluzione verde che ha ridotto la capacità dei Paesi del Sud del mondo depositari della biodiversità di essere autonomi in termini di produzione. Questa guerra cosa porterà, i nuovi Ogm?”.
Green New Deal addio?
Questa guerra e la fantomatica crisi del grano stanno quindi mettendo in pericolo le strategie Farm to Fork e Biodiversità approvate dal Parlamento europeo, paletti entro cui costruire i sistemi agricoli del futuro. “Quello degli Ogm è un tema complesso e pone questioni legate alla qualità e alla sicurezza alimentare – conclude Mininni -. I disciplinari dei prodotti con marchi di tutela, Dop e Igp, sono giustamente molto rigidi e sempre più spesso non prevedono l’impiego di semi geneticamente modificati. Ci sono formaggi Dop, per esempio, che non possono essere fatti con latte di un animale alimentato con mangimi Ogm. Inoltre, la stragrande maggioranza dei cereali di Canada e Usa sono prodotti usando il glifosato, diserbante sulla cui messa al bando pende una decisione europea e che in Italia è oggetto di una campagna per dimostrarne la tossicità e la pericolosità, che ci vede partecipare”.
Non basta. La messa a coltura dei terreni a riposo pone questioni ambientali. La filiera agroalimentare è responsabile per il 37 per cento delle emissioni gas climalteranti: mettere in produzione un terreno a riposo o incolto significa fare un uso maggiore di fertilizzanti, di diserbanti, di acqua. E con il clima che cambia e la siccità che stiamo vivendo già sarà un problema irrigare i campi questa estate. Con buona pace del Green New Deal e della direttiva Farm to Fork.