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In Colombia il testo della riforma del lavoro è stato respinto dalla Settima commissione del Senato, archiviando una delle riforme sociali annunciate dal presidente della Repubblica, Gustavo Petro. Ore prima, il capo dello Stato aveva lanciato un appello a manifestare contro la decisione della Commissione e a favore di un referendum in materia per il quale ha già lanciato la campagna. I suoi sostenitori hanno risposto subito scendendo in piazza.
Tra le norme previste dal provvedimento c’erano la limitazione dell'orario di lavoro diurno, con pagamento di straordinari per le ore lavorate di notte, nei fine settimana e nei giorni festivi, uno dei motivi per i quali i gruppi imprenditoriali colombiani avevano espresso pubblicamente le loro critiche su diversi punti della proposta.
I lavoratori colombiani
La riforma si è resa necessaria per sanare un sistema che registra, ad esempio, un alto tasso di lavoro irregolare, si parla di circa il 60%. Questo dato comporta una grande massa di lavoratori senza un contratto regolare, previdenza sanitaria e contributi pensionistici e un’alta diffusione di situazioni di precariato.
Fabio Arías, presidente della Centrale unitaria dei lavoratori (Cut) colombiana, ci spiega che “durante tutto il periodo neoliberale i lavoratori hanno sofferto di una serie di arretramenti in materia di diritti sindacali e del lavoro. La flessibilizzazione del lavoro e una certa violenza antisindacale durante gli anni del conflitto armato hanno significato passi indietro per i diritti collettivi: in 40 anni il tasso di sindacalizzazione è passato da circa il 14% al 5%, che è quello che c'è oggi”.


La flessibilità è stata imposta con la precarizzazione, “incrementando la terziarizzazione e la intermediazione lavorativa, diminuendo i diritti salariali con aumenti esigui e abbassando gli standard delle condizioni di lavoro”, dice Arías, il quale arriva poi a illustrare la riforma del presidente Petro: “Era finalizzata principalmente al recupero dei diritti collettivi e individuali perduti e di parte dell'affiliazione sindacale, anche attraverso strumenti come i patti collettivi, il contratto sindacale e la intermediazione lavorativa. C’era poi il recupero del diritto di sciopero, della stabilità lavorativa, della formalizzazione del lavoro, a fronte delle forme illegali sostenute negli anni dai datori di lavoro”.
Sono state proprio la classe imprenditoriale e una certa oligarchia a spingere per la bocciatura della riforma del lavoro da parte del Congresso. Una riforma che “è sempre stata appoggiata dalle lavoratrici, dai lavoratori e dai sindacati – afferma Arías -. L’abbiamo costruita insieme al governo, discussa con la parte datoriale, non c'è stato accordo su tutto ma c'è stato un dialogo aperto. C’è stato un lungo periodo di mobilitazioni, di iniziative e di grande dibattito nell'ambito della opinione pubblica. Il testo finale per lo meno non destrutturava lo spirito di recupero dei diritti con il quale noi abbiamo redatto il primo progetto”.
Il quadro politico
Per capire in quale contesto si inserisce la bocciatura della riforma del lavoro in Colombia e la campagna referendaria del presidente abbiamo raggiunto in Colombia Alessandro Rampietti, giornalista italiano che vive a Bogotà ed è corrispondente per l’area andina dell’emittente Al Jazeera, che in questi giorni si è occupato del provvedimento e delle proteste: “Tre anni fa ha vinto le elezioni Gustavo Petro, il primo presidente apertamente di sinistra e progressista della storia moderna della Colombia, dove la sinistra non poteva arrivare al governo, a causa di un lungo conflitto interno e del fatto che in un Paese conservatore la si considerava connessa ai gruppi armati guerriglieri. Lo stesso Petro, negli anni ‘70, apparteneva al gruppo M19”.


Negli anni ‘90 si arrivò a un accordo di pace, dal quale nacque la Costituzione del ‘91, “che è una delle costituzioni più avanzate in America Latina – afferma Rampietti – e che, almeno sulla carta, prevede moltissimi diritti e protezioni, anche se in realtà non è stata completamente realizzata. Dopo l’accordo con le Farc (le Forze armate rivoluzionarie della Colombia) c'è stata la svolta neoliberale che ha distrutto i diritti dei lavoratori. In questo contesto l’elezione di Petro per molte persone è stato un momento di speranza, una promessa di grandi trasformazioni e riforme”.
“Questo governo – prosegue – è riuscito a far passare una riforma finanziaria abbastanza progressista, una parziale riforma delle pensioni, ma non molto di più perché non ha una maggioranza in Parlamento e di volta in volta deve fare accordi e coalizioni diverse. C’erano poi altre due riforme che erano viste come molto importanti, quella del lavoro e quella della sanità, che però, come sappiamo, sono state bloccate. Anche una certa radicalizzazione delle posizioni di Petro è stata un ostacolo alla sua capacità di proporre nuove leggi e di negoziare”.
Rampietti riporta quindi l’impressione di “un governo che sia un po’ allo sbando, che non abbia una visione coerente e nemmeno un metodo di lavoro. Questo è dovuto anche a una litigiosità interna e ad alcuni scandali scoppiati. Petro ha anche dichiarato ufficialmente di sentirsi l’ultimo degli Aureliano Buendia, ed è una posizione un po' difficile per poi governare nella realtà delle cose”.
Un paese diviso
Il Paese mostra inoltre una spaccatura tra la popolazione anche a causa delle controtattiche che i partiti di opposizione colombiani mettono in atto: “Davanti alle manifestazioni della sinistra, ad esempio, l’opposizione fa scendere a sua volta i propri elettori in piazza e questo dà l’idea di quanto il Paese sia diviso. Petro ha anche perso una parte di consensi, tanto che i sondaggi lo danno intorno al 33-34%”, spiega il reporter.
Questa flessione ha una ripercussione anche sui referendum che Petro si accinge a indire e per i quali “dovrebbe andare a votare almeno un terzo degli elettori, cioè più di 13 milioni di persone, mentre Petro ha vinto con 11 milioni e ora ha un calo di consensi. Non dimentichiamo anche che i costi economici di una consultazione referendaria sarebbero elevati mentre il governo ha difficoltà economico-finanziarie, tanto che ha dovuto fare tagli sul budget di quest'anno e non incrementare i fondi per il welfare. Quindi la situazione è complicata – conclude Rampietti – ed è un peccato perché si sarebbero potute fare tante cose se ci fosse stato un approccio diverso”.