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È il 27 agosto 2019, all'aeroporto Marconi di Bologna c'è un caldo feroce. Nonostante l'aria condizionata, l'umidità si taglia con il coltello. O.B., una donnona congolese, è sbarcata dall'aereo che è appena atterrato da Casablanca. Trascina per mano un bambina di 8 anni, sua figlia, mentre sua nipote, che di anni ne ha 13, le ansima affianco sotto il peso di un borsone malmesso. Finalmente arrivano, zuppe di sudore, al gabbiotto del controllo passaporti. Si mettono in fila con gli altri passeggeri, avanzano spedite. Arriva il loro turno, ma la fila si ferma di colpo. Qualcosa non va. Il poliziotto dietro il plexiglass ci sta mettendo più del dovuto. L'aria si fa sempre più pesante, qualcuno dietro di loro sbuffa. Il poliziotto alza lo sguardo, scruta quella donna e quelle due bambine, poi lo riabbassa sui documenti. Se li rigira tra le mani per un bel po', sfoglia le pagine, una ad una. Alla fine chiama il suo superiore.
È così, con un imprevisto, che nasce il “Caso Kinsa”, una disputa legale internazionale che potrebbe cambiare per sempre l’intero impianto normativo europeo in tema di migrazioni e di solidarietà.
I fatti
Da Bologna a Roma
Da Bologna a Lussemburgo
Il delitto di solidarietà
Tre scenari
I fatti
Quei passaporti, quelli di O.B. e delle due bambine, sono infatti falsi: su questo non c'è alcun dubbio. Le tre vengono fermate. Il giorno dopo la donna è agli arresti, mentre le due bambine sono subito affidate a una struttura per minori. A questo punto O.B. è ufficialmente accusata di "favoreggiamento" dell’immigrazione non autorizzata della figlia e della nipote, ai sensi dell’articolo 12, comma 3 del Testo unico dell'immigrazione. Un reato che nell’ordinamento italiano viene punito severamente: fino a 5 anni di carcere.
Ma c'è di più. All’epoca dell’arresto, l’articolo 12 in un caso del genere prevedeva anche l’applicazione delle aggravanti per “utilizzo di servizi internazionali di trasporto (in sostanza, per l'aver preso un aereo ndr) e di falsificazione di documenti”. La pena quindi rischia di arrivare a 15 anni di detenzione, più una multa di 30 mila euro.
O.B. racconta al Gip del Tribunale di Bologna di essere fuggita dal Congo in guerra per sottrarsi alle minacce di morte rivolte a lei e alla sua famiglia dall'ex-partner.
Sua figlia e sua nipote (orfana e affidatale da sua sorella prima di morire), le ha portate con sé perché teme anche per la loro incolumità. Il giudice alla fine convalida l’arresto, ma non dispone la detenzione in carcere.
Al fianco di O.B. quel giorno c'è un'avvocata del foro di Bologna, Francesca Cancellaro. “Siamo di fronte a una vicenda umana drammatica, sotto la scure di un apparato sanzionatorio devastante - racconta la legale oggi -. La signora ha fatto domanda di protezione internazionale. E sebbene la procedura non sia stata ancora completata, il Tribunale per i minori ha comunque accertato la potestà genitoriale, quindi alla fine è riuscita a ricongiungersi almeno con sua figlia. Di sua nipote si è invece persa ogni traccia. In ogni caso, il procedimento penale resta in piedi.”
Francesca Cancellaro
Da Bologna a Roma
Nel frattempo, però, qualcosa è cambiato. E non di poco. La prima tessera del domino che il “Caso Kinsa” rappresenta è già caduta. A qualche mese dall'arresto, l'avvocata Cancellaro chiede infatti di sollevare la questione di legittimità costituzionale per le aggravanti che rendono così pesante la potenziale pena di O.B. Il Tribunale di Bologna accoglie la sua istanza e gira il fascicolo alla Corte Costituzionale. A Roma, dietro le spesse mura del Palazzo della Consulta, i giudici non ci mettono poi troppo a decidere: il 10 marzo 2022 la Corte emette la decisione n. 63, dichiarando l’incostituzionalità del comma 3(d) dell’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, proprio quello che prevede le aggravanti, e le cancella dall'ordinamento italiano.
“La pena era manifestamente sproporzionata e irragionevole rispetto alla condotta di una donna che era semplicemente riuscita a raggiungere il nostro Paese mettendo in salvo sua figlia e sua nipote grazie a un corridoio sicuro - racconta ancora Cancellaro -. La Consulta ce lo ha confermato”.
O.B. rischia ancora fino a 5 anni di reclusione ma, grazie al “Caso Kinsa”, “l'utilizzo di servizi internazionali di trasporto e la falsificazione i documenti” non sono più aggravanti, semplicemente perché non esistono più.
A questo punto, la Corte costituzionale rimanda il fascicolo a Bologna, e i giudici hanno l'opportunità di proseguire il percorso di accertamento dei fatti, basandosi sulle decisioni della Consulta. Il Tribunale di Bologna, invece, sempre su istanza presentata dall'avvocata Cancellaro, 17 luglio 2023 rimette il caso alla Corte di giustizia europea per valutare, addirittura, se l’intero impianto normativo continentale conosciuto come “Pacchetto facilitatori” sia effettivamente compatibile con la Carta dei diritti Fondamentali dell’Ue. È la seconda tessera del domino che comincia a traballare vistosamente.
Da Bologna a Lussemburgo
“Il problema, in sostanza, non era quantificare la punizione per quel tipo di condotta – spiega ancora Cancellaro –, ma il fatto che ci fosse una sanzione penale per una condotta del genere. Perché la nostra disciplina interna, quindi la criminalizzazione operata dall'articolo 12 del Testo unico italiano, è in realtà nient'altro che una risposta agli obblighi di criminalizzazione internazionale che discendono direttamente dalla normativa Ue. Ora, in discussione c'è l'intera disciplina”.
È infatti in Lussemburgo che il “Caso Kinsa” può scatenare tutto il suo devastante potenziale a livello europeo. Il “Pacchetto facilitatori”, composto da una direttiva e da una decisione quadro del 2002, impone agli Stati membri di introdurre leggi che puniscano “la facilitazione all'ingresso di migranti” nell'Unione. Ogni Stato membro deve quindi adottare “sanzioni appropriate contro chiunque intenzionalmente aiuti una persona non cittadina (…) a entrare o transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione delle leggi dello Stato”.
In sostanza, l'Europa ci chiede di criminalizzare chi fa entrare migranti anche senza fine di lucro, e non ci obbliga a introdurre una “eccezione umanitaria”, cioè l'esclusione per atti compiuti per solidarietà.
Insomma, dobbiamo considerare tutti, ma proprio tutti, alla stregua di scafisti. La richiesta sollevata dal Tribunale di Bologna, però, potrebbe scardinare tutto. Perché la Corte deve decidere se il “Pacchetto facilitatori” violi o meno il “principio di proporzionalità”.
La domande a cui i giudici Ue devono rispondere, in realtà, sono due. La prima: le persone in movimento e coloro che li supportano subiscono pene eccessive? E ancora: queste normative europee si contrappongono ad alcuni diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue come la libertà personale (articolo 6), la proprietà (articolo 17), la vita (articolo 2), l'integrità fisica (Articolo 3), l'asilo (articolo 18), la vita familiare (articolo 7)?
Tatiana Montella
“È una decisione cruciale nella lotta alla criminalizzazione delle migrazioni e della solidarietà - spiega Tatiana Montella, avvocata e collaboratrice della clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza dell'Università di RomaTre -. Per la prima volta, viene messo in discussione l'intero impianto normativo che sostiene questo approccio, partendo dal presupposto che s'impongono limitazioni sproporzionate a diritti fondamentali, sia di chi aiuta sia di chi viene aiutato”.
Il “Caso Kinsa”, insomma, potrebbe demolire “anche l'utilizzo politico che dei reati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di immigrazione irregolare si fa e si è fatto in passato”.
La scelta della Corte di Lussemburgo, in effetti, impatterebbe su un'enorme quantità di procedimenti in tutta Europa, “perché sono tantissime le persone detenute in carcere con la contestazione del reato di favoreggiamento, solo perché hanno offerto ospitalità, o hanno comprato un biglietto dell'autobus a un migrante. La legislazione nei vari stati europei si basa quasi sempre sulla criminalizzazione dei migranti, come nel caso del decreto Cutro in Italia. La sentenza, però, potrebbe determinare una reazione a catena sulla legislazione relativa all'immigrazione in tutti gli stati membri.”
Il delitto di solidarietà
Secondo i dati ufficiali, negli ultimi 20 anni, solo in Italia, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ha colpito oltre 37 mila persone, e sono circa 1.000 i migranti attualmente detenuti in carcere per questo. Secondo le stime del circolo Arci Porco Rosso di Palermo, poi, negli ultimi 10 anni oltre 3.200 persone sono state arrestate nelle fasi successive agli sbarchi per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra di loro c'è anche chi ha agito per salvare se stesso e gli altri da un naufragio o dal respingimento illegale in Libia.
“Nella mia attività ho incontrato tantissimi casi del genere - racconta Nagu Cheick Ahmed, mediatore culturale di origine mauritana, rifugiato politico a sua volta -. Non si può mai generalizzare, e bisogna analizzare bene ogni singolo caso”.
"Ci sono persone che non hanno pilotato i barconi ma che sono state incriminate a causa di testimonianze male interpretate o traduzioni sbagliate. Altri sono stati costretti con una pistola puntata alla tempia, dopo aver visto qualcuno essere ammazzato davanti ai propri occhi perché si era rifiutato. Qualcun altro ha guidato una barca solo per salvare i compagni di viaggio, altri ancora vengono accusati da chi ce l'ha con loro”.
Insomma, "la maggior parte delle volte le autorità non approfondiscono, perché vogliono trovare subito lo 'scafista'. Basta che ci sia un colpevole, e in fretta”.
Nagu Cheick Ahmed
Nell’Agenda europea della migrazione, questo è un fatto, la lotta contro i trafficanti ha sempre rappresentato un'assoluta priorità. Il “Pacchetto facilitatori” rappresenta la base giuridica dell’operato dell’Ue e degli Stati membri in materia di contrasto al traffico degli esseri umani, ma sono stati introdotti anche numerosi piani d’azione, strategie e misure politiche per integrarlo. In Italia, ad esempio, il salviniano “Decreto sicurezza bis” del 2019 ha delineato una specifica sanzione per i comandanti di navi che non rispettano l’ordine del ministro degli Interni di limitare l’accesso in acque territoriali. Nel 2023, il famigerato “Decreto Cutro” è stato invece presentato dalla premier Meloni come uno strumento per andare a caccia degli scafisti in “tutto il globo terracqueo”, e ha inasprito ancora di più le pene per il reato di favoreggiamento. Questa lunga catena di leggi sempre più restrittive, sia a livello comunitario sia nei singoli stati membri, per la prima volta rischia di spezzarsi.
Tre scenari
Il Caso Kinsa ha debuttato nel giugno scorso alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Per il 7 novembre è prevista la prima requisitoria da parte dell'Avvocatura generale, mentre la sentenza dovrebbe arrivare tra la fine di quest'anno e l'inizio del 2025. Secondo alcuni esperti di diritto comunitario, esistono tre possibili scenari. Il primo prevede che la Corte scelga di convalidare le leggi, cioè di confermare che siano conformi alla Carta dei diritti fondamentali dell'Ue. Nel secondo scenario la Cgue annullerebbe alcune disposizioni, nel terzo convaliderebbe le leggi ma con un’interpretazione che ne garantisca la conformità. In caso di invalidazione totale o parziale del diritto, però, sarà necessario un intervento da parte della Commissione europea. E dato che è in corso una riforma del "Pacchetto facilitatori", una sentenza del genere potrebbe anche influenzare il dibattito in maniera decisiva.
In ogni caso, le leggi nazionali devono essere in linea con le sentenze della Corte. Se alcuni aspetti del quadro giuridico comunitario diventano illegittimi, quegli stessi aspetti sarebbero considerati non legittimi anche nelle legislazioni nazionali.
Questo potrebbe portare a modifiche legislative in ogni singolo Stato. Una sentenza, però, potrebbe avere anche effetti su singoli casi, come una rivalutazione delle pene per chi è già stato condannato. Mentre per i casi ancora pendenti, si potrebbero presentare richieste di sospensione del procedimento durante il processo, con la possibilità di motivare una richiesta di rilascio.
Insomma, il sistema di controllo delle frontiere che la Fortezza Europa ha messo in piedi negli ultimi vent'anni incomincia a traballare pericolosamente. Tutte le tessere del domino potrebbero cominciare a cadere, una dopo l'altra. E a dare la prima spinta è stata O.B., quel donnone congolese che un giorno sbarcò all'aeroporto di Bologna con tre passaporti falsi. Scappava dalla guerra e dalla violenza, e si trascinava dietro due bambine.