Il 7 ottobre 2023: la strage compiuta da Hamas in Israele e la risposta di Tel Aviv che ha dato il via a bombardamenti e operazioni di terra che hanno provocato la morte di oltre 40mila palestinesi in una Gaza ormai distrutta. Da qui l’allargamento del conflitto in Libano di Hezbollah, con la perdita di altre centinaia di vite tra i civili, per giungere ora allo scontro aperto con l’Iran. A Lucio Caracciolo, esperto di geopolitica e direttore della rivista Limes, abbiamo chiesto una panoramica della situazione mediorientale. 

L’operazione terroristica di Hamas è stata subito definita come uno spartiacque nella storia del Medio Oriente, dopo un anno possiamo confermare e aggiungere altro a questa definizione?

Lo shock del massacro del 7 ottobre ha indotto Israele, o almeno il suo governo e una buona parte dell’opinione pubblica, a intraprendere la strada decisiva della vittoria. Non semplicemente una risposta ma, secondo loro, di una fine del conflitto, stabilendo una volta per tutti i confini di Israele con un punto di vista soprattutto religioso, quindi l’annessione di Giudea e Samaria e anche un pezzo del Libano. Gaza ormai è completamente distrutta, ma insomma a partire dal 7 ottobre è cambiato tutto il Medio Oriente, perché questo comporta, come vediamo, tutta una serie di reazioni e contro reazioni che vanno fino allo scontro diretto Iran-Israele.

IMAGO ECONOMICA
IMAGO ECONOMICA
LUCIO CARACCIOLO DIRETTORE LIMES (IMAGO ECONOMICA)

Cosa in particolare è cambiato in Medio Oriente e negli equilibri che coinvolgono paesi al di fuori dell’area?

Cambia il fatto che gli Stati Uniti hanno dimostrato di non saper governare le crisi, in particolare di non sapere non dico imporre, ma almeno condizionare Israele. Ci hanno provato, anche pubblicamente Biden e i suoi hanno detto “non rifate i nostri errori”, Israele ha deciso di rifarli e l’America ha deciso di accompagnare Israele in questo cammino che, a mio avviso, nel medio periodo si ritorcerà contro Israele, oltre che naturalmente su tutti quelli che vengono ammazzati in queste settimane.

L’esito delle imminenti elezioni negli Stati Uniti non provocherebbe quindi alcun cambiamento?

Non cambierà moltissimo. Gli Stati Uniti non sono più padroni del gioco. Certamente c’è differenza tra Trump e Harris: probabilmente Trump cercherebbe innanzitutto di chiudere la partita con Putin e di dare una mano per vincere la guerra, Harris sarebbe sicuramente con Israele e cercherebbe di aiutare l’Ucraina a non finire la guerra con una sconfitta.  

In tutto ciò l’Europa è silente...

Ma che cosa si intende per Europa? L’Europa, come direbbe Metternich, è un’espressione geografica. 

L’Iran non sembra intenzionato a infilarsi in una guerra aperta con Israele, ma, in ogni caso, quali sono i rischi che si stanno correndo nell’area e anche al di fuori di essa?

L’Iran è in una crisi profonda non soltanto economica e sociale, ma anche politica, con una una società e anche una elite molto divisa. Tanto è vero che Netanyahu, i neoconservatoristi americani e qualcun altro pensano che questa possa essere addirittura l’occasione per un cambio di regime. L’Iran ha paura che si finisce dentro a 360 gradi in questa guerra poi rischia di perdere non solamente il suo “impero”, cioè l’asse che va da Herat a Beirut attraversando tutta l’area sciita, ma anche se stesso. 

Ci sono cause e conseguenze economico-finanziarie? 

Non ci sono cause economico-finanziarie. Questa è una guerra che si basa su altri criteri, geopolitici, religiosi messianici, perché stiamo parlando anche di elite abbastanza apocalittiche sia in campo israeliano ebraico e sciita, ma soprattutto in campo israeliano. Non possiamo leggere queste guerre solamente con le nostre categorie, non si tratta solamente di un calcolo di dare e avere: ci si gioca tutto, si pensa di giocarsi tutto in attesa dell’ultimo giorno.

Sono intanto in corso numerose guerre dimenticate, tra queste c’è la situazione della Siria che ora vede anche gli attacchi da parte di Tel Aviv, e soprattutto è ancora in corso il conflitto tra Russia e Ucraina: sono situazioni avulse l’una dall’altra o ci sono delle interconnessioni?

Sono molto connesse. Per quanto riguarda la Siria, fa parte della guerra perché il fronte di guerra comprende anche questo Paese, che è diviso e penetrato da varie potenze, Turchia, Russia e America e poi soprattutto Libano e Siria sono praticamente la stessa cosa. Quando c’è la guerra in Siria i siriani vanno in in Libano e quando c’è la guerra in Libano i libanesi vanno in Siria e quando c’è la guerra in entrambi i Paesi non sanno più dove andare. È la situazione di oggi, con un flusso libanese importante.

E il conflitto tra Russia e Ucraina, invece, a che è?

Siamo a un punto di svolta, perché tecnicamente la guerra è finita con la Russia che perde l’Ucraina e si tiene il Donbass, cosa che si poteva immaginare già nel 2022, ma il problema è che l’Ucraina non può accettare la sconfitta, o, se vogliamo, Zelenski non può accettare la sconfitta e quindi il suo tentativo è di coinvolgere la Nato nella guerra, magari costruendo le condizioni perché la Nato debba intervenire con l’appoggio di qualche Paese dell’Alleanza. 

Tornando più strettamente al Medio Oriente, a fronte dell’attuale situazione, con Israele che minaccia di colpire i siti nucleari iraniani, cosa potrebbe essere realisticamente più auspicabile affinché non si arrivi alle estreme conseguenze?

Sarebbe auspicabile che prevalessero le forze più pragmatiche in entrambi i campi, ma soprattutto in Israele, che oggi ha l’iniziativa, dove queste forze sono in una gran parte dell’esercito, o negli stessi vertici e anche in quelli dei servizi di intelligence. L’opposizione a Netanyahu non funziona, anche se teoricamente potrebbe avere la maggioranza nelle elezioni, i motivi sono molti, ma quello principale è che non ha un leader.