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Tra i boschi gelidi dell’Est, ai margini dell’Unione europea, un accampamento improvvisato, fatto di tende sgangherate e fuochi sempre accesi, occupa una terra di confine, sul bordo tra Polonia e Bielorussia. Di fronte a una linea ordinata di truppe polacche di frontiera è stato montato il filo spinato, mentre nel lato opposto, sui fili più docili della recinzione, i profughi appendono abiti e magliette.
Da quando lunedì scorso un gruppo di migranti ha cercato di attraversare una delle porte invisibili d’Europa, sul fronte est del piccolo comune rurale di Kuznica, notte e giorno, lo sguardo attento di 17.000 poliziotti polacchi perimetra un terreno cristallizzato. Chi abita l’accampamento ha attraversato continenti, viene da paesi dell’Asia e del Medio Oriente. Sono arrivati al varco di Kuznica con il beneplacito delle autorità bielorusse, ma ora che sono bloccati, quella di avanzare o tornare indietro non è più una scelta che gli appartiene: sui loro corpi, tra il gelo della notte e la fame del giorno, si consuma una crisi umanitaria pianificata a tavolino.
Erano mesi che se ne intravedevano i segnali: da parecchio i flussi migratori ai confini europei con la Bielorussia si erano intensificati. La storia dei campi di migranti lungo i margini orientali d’Europa è legata a doppio filo ai diritti calpestati in Bielorussia e alle politiche estere della Ue. Al centro della trama c’è l’aereo Ryanair dirottato a Minsk dal regime autoritario di Lukashenko e l’arresto del giornalista bielorusso Roman Protasevich che ne era passeggero. Poi la decisione del Consiglio Ue di approvare un nuovo pacchetto di sanzioni in risposta alle politiche repressive in Bielorussia. Infine, l’orchestrazione machiavellica di Lukashenko, che sulla vita e la morte di migliaia di migranti ha costruito un terreno di contesa in cui sfidare l’Unione europea dove è storicamente più instabile.
Così, anche se era giunta sottovoce, nei primi giorni d’estate, la notizia che il governo bielorusso stesse semplificando le procedure burocratiche d’entrata nel Paese con visti turistici dall’Iraq e altri paesi, lasciando che i migranti raggiungessero facilmente le zone di confine, gli Stati esteuropei erano entrati in allarme. Ora in Lituania è stato dichiarato lo stato d’emergenza al confine, dove i migranti sono in attesa in campi di fortuna, mentre si parla di 3.000-4.000 migranti fermi al confine polacco, di cui qualche centinaio radunati nell’accampamento di Kuznica. Intanto, tra i corridoi dell’Assemblea nazionale a Varsavia si fanno già più concreti i piani per la costruzione del muro anti-migranti a est, e a Bruxelles la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen parla di nuove sanzioni alla Bielorussia.
È la storia che si ripete. Come negli accordi sui migranti con la Turchia, dopo che il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva minacciato l’Europa facendo avanzare senza controlli centinaia di migliaia di persone attraverso altipiani e alture dell’Anatolia. E ancora, l’intesa da poco rinnovata sui pattugliamenti in mare della guardia costiera libica. Tutti accordi che lasciavano perplessi per i rischi di affidare la gestione di un’umanità vulnerabile a scafisti e dittatori, ma che erano ormai diventati azzardi tutto sommato accettabili nella logica di una prassi geopolitica perfettamente allineata alla volontà europea di esternalizzare il controllo dei confini.
“Il problema è che, come al solito, si sta facendo uso di quella vera e propria arma non convenzionale di pressione politica che è ormai diventata la disperazione dei migranti, con l'obiettivo di attuare una strategia della tensione. È agghiacciante, ma soprattutto è una situazione che mette in luce l'ormai nota debolezza dell'Unione europea rispetto al fenomeno migratorio”. È il commento di Giuseppe Massafra, segretario confederale della Cgil.
“Se l'Unione europea reagisce alzando muri, potenziando i confini e schierando gli eserciti per fermare i migranti - continua Massafra – è perché non ha ancora un’efficace politica di integrazione e gestione dei flussi. Questo permette a regimi totalitari, come quello bielorusso, di sfruttare le persone come arma di ricatto. Al netto di qualsiasi analisi geopolitica, insomma, quello che sta succedendo, mostra la fragilità della politica europea. Lo stesso problema si è presentato anche in passato su altre rotte e si presenterà ancora, fino a quando non si affronterà il fenomeno migratorio in maniera condivisa e strutturale”.
Così l’Unione europea ha generato uno spazio di opportunità per speculazioni politiche ed economiche sui flussi migratori. Il controllo e la gestione delle porte d’Europa è diventata una tattica di potere: per quei paesi che si sono trovati in una posizione strategica per la gestione dei rubinetti migratori, la debolezza europea è una promessa di vittoria.
A Bruxelles la catena di montaggio è andata in cortocircuito, come se i trattati si fermassero al confine e i boschi di Kuznica avessero messo radici in una terra senza diritti. È il futuro della geopolitica che si fa più distopico: quella che prima era una battaglia giocata su risorse e gasdotti, oggi si combatte su corpi sfiniti e senza patria.