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Un aumento del tasso di inflazione ha dato avvio in Italia a un intenso dibattito sui maggiori quotidiani nazionali. In questo confronto che mette in luce diverse opinioni sembra prevalere quella strategia che Federico Caffè avrebbe definito di “allarmismo economico”, cioè distorcere la situazione economica e drammatizzare gli aspetti negativi con l’obiettivo di imporre misure restrittive sul piano economico e fermare le rivendicazioni sociali.
Le questioni economiche non possono, però, essere analizzate senza tener conto delle condizioni storiche e istituzionali e ciò che emerge dal dibattito odierno sull’inflazione è la mancanza di una diagnosi completa su un fenomeno molto complesso in uno scenario peraltro inedito. Siamo, infatti, in un’epoca di profondi cambiamenti, molti dei quali repentini e inaspettati. È sufficiente pensare, ad esempio, al fatto che appena un anno fa si stava discutendo di deflazione, cioè di una diminuzione generalizzata dei prezzi che è l’opposto dell’inflazione, e di quali fossero le misure più adatte a contrastarla.
A distanza di un anno ci troviamo, invece, a parlare di inflazione in uno scenario completamente nuovo, caratterizzato da una pandemia che ha determinato sconvolgimenti su scala mondiale, cambiando la vita delle persone, bloccando e rallentando la produzione, modificando le strategie di vendita e la struttura dei consumi. È, quindi, necessario uno sforzo intellettuale maggiore per valutare in maniera più equilibrata questa inflazione, evitando comparazioni forzate con altri periodi inflattivi e concentrandosi invece sulla natura dell’attuale fenomeno.
Questo si sta dimostrando un anno molto particolare, contrassegnato in particolare da una forte crescita economica - sostenuta anche da un massiccio intervento pubblico, sollecitato dalla necessità di contrastare l’impatto della pandemia sul sistema economico e sociale – che però fatica a tradursi in un aumento della buona occupazione. Inoltre, nel 2021 si sta concretizzando un prevedibile incremento del tasso di inflazione dovuto alla ripresa delle attività economiche dopo il blocco imposto dalla pandemia. Se analizziamo i dati provvisori di novembre relativi al Nic (l’indice dei prezzi al consumo nell’intero sistema economico calcolato dall’Istat e utilizzato come parametro per le politiche economiche) osserviamo che il recente aumento è determinato soprattutto dall’energia e dai trasporti.
Le cause di questo aumento sono imputabili soprattutto alla crescita del prezzo dei beni energetici e di alcuni altri prodotti. Per quanto riguarda le fonti fossili, l’Italia ha un’elevata dipendenza dall’estero, soprattutto sul gas, che espone il nostro Paese a rincari determinati non dalla scarsità delle risorse bensì da questioni geopolitiche. Questo è tuttora un punto debole che rimarrà tale finché l’Ue nel suo complesso non avrà un’integrazione politica e non acquisirà una maggiore indipendenza energetica, anche grazie alla relativa transizione. Invece, la ripresa degli scambi commerciali a livello globale è accompagnata da un aumento della domanda superiore all’offerta che, a causa del blocco pandemico, ha determinato un incremento dei prezzi nelle filiere di approvvigionamento di alcuni beni.
In attesa di capire se l’attuale incremento dell’inflazione è congiunturale o strutturale, le preoccupazioni sul suo aumento sono sensate ma al momento troppo accentuate, soprattutto tenendo in considerazione la forte incertezza che è ancora largamente diffusa a livello globale a causa della pandemia. Gli ultimi dati Istat mostrano che l’accelerazione registrata su base tendenziale (pari a più 3,8 per cento e su cui si concentra la maggior parte dei commenti ed editoriali) è in larga parte dovuta ai prezzi dei beni energetici non regolamentati che comprendono i carburanti per gli autoveicoli, i combustibili per uso domestico e l’energia elettrica del mercato libero. L’inflazione acquisita a novembre relativa all’anno in corso è, invece, di più 1,9 per cento e se calcolata al netto degli energetici e degli alimentari freschi (la cosiddetta “componente di fondo”) è di appena più 0,8 per cento.
Inoltre, la Banca centrale europea, che ha l’obiettivo di mantenere il tasso di inflazione prossimo ma al di sotto del 2 per cento sul medio termine, pur reputando che questo fenomeno possa durare più a lungo del previsto ma giudicandolo comunque ancora transitorio, non ritiene ci sia necessità di modificare nell’immediato la propria politica monetaria. In ogni caso, per non rifare gli stessi errori del passato è bene ricordarsi di come la decisione della Bce di innalzare i tassi di interesse all’indomani delle crisi del 2008 e del 2011 abbia soffocato qualsiasi possibilità di ripresa della domanda aggregata ed è proprio quello che dobbiamo evitare adesso, anche perché non siamo ancora usciti dalla pandemia.
Il punto è, quindi, valutare le implicazioni rispetto a un aumento dei costi che si scarichi tutto sui prezzi dei beni finali o che venga anche assorbito tramite una riduzione del margine di profitto, con differenze che variano tra i settori che producono, distribuiscono e vendono. La prima opzione è difficilmente percorribile per le imprese più esposte alla concorrenza perché con un aumento dei prezzi potrebbero perdere importanti quote di mercato mentre per le imprese che operano in settori più protetti è percorribile perché possono scaricare tutto, o una quota parte, sui consumatori finali.
In questa fase di profonda incertezza, senza un tempestivo intervento di politica economica non monetaria che consenta di assorbire questi aumenti, anche tramite provvedimenti sul fisco che favoriscano i redditi più bassi e uno sblocco dei rinnovi dei contratti già scaduti, la risposta non potrà che essere una richiesta di tutela proveniente dalle categorie sociali più esposte. Per queste ragioni, diventa, quindi, fondamentale rafforzare fin da subito la crescita della domanda interna, creando nuova e buona occupazione e aumentando i salari, così da sostenere i consumi e gli investimenti.
Nicolò Giangrande, economista e ricercatore della Fondazione Di Vittorio