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La Missione 1 del Pnrr si intitola: digitalizzazione, innovazione competitività, cultura. Se guardiamo i dati di oggi scopriamo che delle infrastrutture immateriali c’è un gran bisogno, la dad e lo smart working obbligati dalla pandemia ci hanno svelato l’arretramento in fatto di connettività delle famiglie italiane. La digitalizzazione è anche una grande sfida per far aumentare la produttività del Paese. Di questi temi abbiamo parlato con Fabrizio Solari, segretario generale della Slc Cgil. “Ciò che è scritto nel Pnrr sono dei titoli largamente condivisibili – spiega –. Quello che mi lascia perplesso è il modo in cui tradurre in concreto le riforme e i provvedimenti. Chi sono i soggetti attuatori? Quali sono i tempi di realizzazione? Allo stato dei fatti, sappiamo che ci sono le risorse finanziarie per investire e che sono state individuate aree precise nelle quali intervenire per colmare ritardi drammatici. Dire questo, però, non basta. Per colmare questo gap occorre definire gli strumenti necessari.”
I 40 miliardi previsti per questa Missione sono sufficienti?
Sono un buon inizio. In questi settori l’innovazione è quotidiana, dunque la necessità di avere una capacità di investimento durevole nel tempo è fondamentale. Però vorrei aggiungere una considerazione generale. Nella premessa del Documento, secondo me c’è la chiave di lettura per quel che bisogna fare. Il Governo mostra una fotografia tanto coerente, quanto impietosa, di tutti i problemi degli ultimi 20 anni: due tra tutti, la crescita lenta e il mancato adeguamento delle capacità nei settori interessati. Poi, per dimostrare la capacità dell’Italia di crescere si fa riferimento al ventennio compreso tra gli anni Cinquanta e Settanta. È un’analisi con cui concordo, ma bisogna essere coerenti. Indicare per l’utilizzo dei 40 miliardi soltanto il mercato e la concorrenza è esattamente l’ideologia responsabile dell’arretratezza fotografata nella premessa del Documento. Si tratta, cioè, della dottrina neoliberista che ha imperato nei 20 anni perduti per ammissione stessa del governo. Al contrario, nel periodo indicato come prova delle capacità di crescere del nostro Paese, gli investimenti privati sono stati trainati dalle grandi scelte di politica industriale che all’epoca fecero le Partecipazioni statali: su energia, telefonia, telecomunicazioni, acciaio, industria di base. In quegli anni erano le Partecipazioni statali a scegliere, mentre i privati si adattavano e investivano secondo quelle scelte. Nella previsione dei prossimi 20 anni, temo manchi il soggetto che all’epoca furono le Partecipazioni statali. Non si può immaginare un Pnrr senza avere un timone, una guida politica che definisca una politica industriale.
Rimanendo alle considerazioni generali ancora per un attimo, quel che colpisce, è che nel definire le premesse che devono accompagnare, se non precedere il Pnrr, si dettaglia quella della concorrenza da fare subito e si accenna a quella del fisco. Non c’è qualcosa che stride?
Premetto di essere d’accordo con la lettura che vede nel Pnrr l’ultima chance per l’Italia di riagganciare un sentiero di sviluppo. Non sottovaluto affatto i miliardi che sostengono questo piano e l’impatto che possono avere nel cambiare il Paese. Però, se non si assume un indirizzo comune che organizzi i soggetti coinvolti, si corre il rischio di reiterare i medesimi errori del passato. Abbiamo un assoluto bisogno di pianificare più giustizia sociale, un obiettivo rispetto al quale la riforma del fisco e quella della pubblica amministrazione costituiscono due tasselli fondamentali. Allo stesso modo, occorrono interventi mirati nell’innovazione produttiva, nell’industria e nei servizi. Ma non sarà il mercato a risolvere i problemi che esso stesso ha generato. Secondo me, l’interrogativo sul perché negli ultimi due decenni siamo cresciuti ¼ dell’Europa è il grande non detto del Piano.
Torniamo alla Missione 1. Si pone molta enfasi, giustamente, sulla necessità di innovare e digitalizzare la Pubblica amministrazione. Ho la sensazione che non se ne metta altrettanta, di enfasi, sulla necessità di far arrivare il digitale nelle case di tutte le famiglie. Dove sono i cittadini e le cittadine?
È vero che l’infrastruttura da sé non è in grado di risolvere tutto perché è necessaria anche una cultura digitale. D’altronde, senza l’infrastruttura non si può fare nulla. Dato che il nostro Paese ha un ritardo infrastrutturale marcato (siamo al 25^ posto in Europa), di strada da fare ne abbiamo parecchia. Innanzitutto, dovremmo dotarci di una rete moderna ed efficiente. Risale allo scorso agosto la decisione del governo precedente di dare vita a una rete unica di nuova generazione, accorciando i tempi per la sua realizzazione e preservandone l’apertura al mercato. Di recente, la discussione è ripresa con sfumature, tagli e impostazioni che riportano il progetto in alto mare. Si era deciso di realizzare la rete unica attraverso la collaborazione di Tim e Open Fiber, il cui rapporto sarebbe stato mediato da Cassa Depositi e Prestiti, preservando il carattere aperto della rete. Non soltanto questa decisione non ha avuto ancora alcun seguito, ma temo che s’intendano fare dei passi indietro in merito agli strumenti volti a concretizzare gli interventi che si declamano irrinunciabili.
Nel frattempo si prevede che il 56 % dei cittadini che risiede nelle aree economicamente vantaggiose sarà raggiunto dalla connessione ad 1 Gbit al secondo entro il 2025. Tutti gli altri chissà quando. Ma così i divari territoriali e sociali non rischiano di approfondirsi?
È esattamente quel che accade quando si lascia fare al mercato. È evidente che un privato fa investimenti là dove il ritorno è maggiore. È la stessa ragione per cui, al netto della pandemia che ha colpito tutti, abbiamo un eccesso di offerta ferroviaria nella tratta Milano – Roma e uno stato pietoso dei treni nel trasporto locale. Occorre, per l’appunto, fare un’altra operazione. Dico di più: in vista di una pubblica amministrazione digitale, garantire a chiunque una connessione efficace non è solo eticamente necessario, ma un vero e proprio diritto. Se la modalità principale per parlare con lo Stato diventa quella digitale, ciascun cittadino e cittadina deve potervi accedere. La qualità del collegamento, efficace ed efficiente, diventa un diritto universale e va trattato come tale.
Dicevi che circa 8 mesi fa è stata formalmente assunta la decisione di avviare il percorso della costruzione della società che deve gestire la Rete unica. Tim e Cassa Depositi e Prestiti hanno firmato un memorandum che va in questa direzione, Cassa depositi e prestiti avrà un ruolo rilevante ma che cosa sta succedendo?
Si era deciso che i destini di Tim, che ha la rete più diffusa, e quelli di Open Fiber (50% CdP e 50% Enel, quindi riconducibile al pubblico) si unissero per realizzare nel minor tempo possibile la rete unica. Però di quel memorandum mi pare si siano perse le tracce, il che mi preoccupa molto. Ecco perché abbiamo chiesto un incontro al governo, senza ricevere risposta. Insisteremo e, se sarà necessario, prenderemo altre iniziative. Anche perché – è bene ricordarlo – nel settore dell’intrattenimento tutte le Tv si stanno orientando alla trasmissione di contenuti on demand. Ciò vuol dire che internet super veloce sarà funzionale anche alla fruizione dei contenuti televisivi e che la fibra, dunque, si diffonderà in modo inevitabile. Questa convergenza tecnologica va “sfruttata”, sapendo che il ritorno dell’investimento sarà assolutamente certo.