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Inflazione su, salari giù. Mentre in Italia nel 2023 la retribuzione oraria è crescita in media del 3,1%, questo incremento è stato annullato dall’aumento dei prezzi (indice Ipca relativo ai consumi) che è stato del 5,9%.
I dati li ha resi noti l’Istat, che ha precisato: l’indice mensile delle retribuzioni contrattuali orarie a dicembre scorso ha registrato un più 5,1% rispetto a novembre e del 7,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Con queste differenze: più 4,5% per i dipendenti dell’industria, 2,4 per quelli dei servizi privati, 22,2 per la pubblica amministrazione.
L’Eurozona fa meglio
Le cifre, scrive l’istituto di statistica, sono fortemente influenzate dall’erogazione anticipata dell’incremento dell’indennità di vacanza contrattuale (per il 2024) per i dipendenti a tempo indeterminato delle amministrazioni statali. Gli indici di gennaio, quindi, non potranno che registrare una variazione congiunturale negativa.
Anche se la decelerazione dell’inflazione nel 2023 ha ridotto la distanza tra la dinamica dei prezzi e le retribuzioni contrattuali a circa tre punti percentuali, il dato italiano sfigura davanti a quello dell’Eurozona, fornito dalla Bce: la crescita dei salari nel quarto trimestre del 2023 è stata del 4,5% in media.
10 milioni in attesa di rinnovo
“Si tratta di cifre che risentono del grande numero di contratti che non sono stati rinnovati – afferma Nicola Marongiu, responsabile dell’area Contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -. Dieci milioni di lavoratori il cui contratto è scaduto e che per questo sono rimasti indietro, servizi, terziario, commercio, distribuzione: tutto questo interviene sulla bassa crescita complessiva del monte salari. Senza contare che anche nei contratti che si rinnovano è difficile mantenere il potere d’acquisto, sebbene questo sia un obiettivo preciso e prioritario della Cgil”.
Quindi è difficile adeguare i salari all’inflazione con contratti che vengono rinnovati dopo anni: il tempo medio di attesa è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre 2023.
Famiglie più povere
In questa maratona a due velocità a pagare il prezzo più alto sono naturalmente le famiglie. La conferma arriva dalla ricerca dell’Osservatorio Acli, secondo la quale le famiglie italiane hanno perso 240 euro al mese a causa dell’inflazione dal 2019 al 2022, ovvero fra 317 e 150 euro a seconda del nucleo. Per rendere comprensibile la perdita del potere d’acquisto l’analisi trasforma la cifra in carrelli della spesa per beni primari, ipotizzando un costo a carrello di circa 90 euro.
Carrelli persi
Emerge che le famiglie con due redditi senza carichi hanno perso circa otto carrelli annuali (pari a 700 euro); i separati o divorziati senza carichi sei carrelli, come sei sono i carrelli persi da single e unioni di fatto, fino a toccare i quattro carrelli persi dalle famiglie monoreddito e dai vedovi (330 euro).
La perdita del potere d’acquisto è in media dell’8,7% sul totale delle famiglie analizzate, affermano le Acli, in un range che va dal 4,5 al 10%. Non basta. Dal 2020 al 2023 è aumentato anche il numero delle famiglie entrate in povertà relativa a causa dell’inflazione, che ha eroso i redditi del ceto medio più del Covid: sono passate dal 7,6% del 2022 al 9,8 del 2023.
Tassa invisibile
È quella che le Acli chiamano una tassa invisibile, non rilevabile in busta paga, ma che ha limitato fortemente le scelte di spesa, andando a colpire anche i beni primari. E poco rassicurano gli ultimi dati Istat sul carrello della spesa degli italiani che a gennaio ha rallentato: gli aumenti dei prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona passano da più 5,3% a più 5,1 e quelli dei prodotti ad alta frequenza d'acquisto da più 4,4% a più 3,5.
Ma un litro di latte fresco intero costa ormai più di un litro di benzina e ha fatto registrare un aumento dello 0,2% in un solo mese, mentre l'olio extravergine, da mesi in testa ai rialzi, è salito nuovamente di un più 2% in un mese (più 44,4% su base annua).