Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Riscrivere l’economia europea. Le regole del futuro dell’Unione, il Saggiatore 2020 (traduzione di Marco Cupellaro), in libreria dal 21 maggio. Un manifesto e progetto sociale per una nuova Ue, quello lanciato dal premio Nobel per l’Economia Joseph E. Stiglitz, quanto mai attuale in questo momento di ridefinizione delle priorità e dei valori, nel pieno della crisi più grave affrontata dall’Europa e dal mondo negli ultimi decenni.

Nel 2008 una crisi finanziaria, inizialmente quasi impercettibile e poi inarrestabile, ha innescato in Europa quella che è diventata una crisi prima economica e poi sociale. Tutte le crisi prima o poi passano: ma, nel valutare un sistema economico, ciò che conta non è che la crisi sia finita, ma il tempo che ci vuole per arrivare a una completa ripresa, le sofferenze inflitte tanto a lungo ai cittadini e la vulnerabilità del sistema a un’altra crisi. In Europa le conseguenze della crisi finanziaria e della recessione sono state inutilmente gravi, lunghe e dolorose. Il divario tra la condizione attuale dell’economia e quella in cui si sarebbe trovata in assenza di crisi si misura ormai in trilioni di euro. E ancor oggi, un decennio dopo lo scoppio della crisi, la crescita rimane anemica e fragile.

Il fenomeno che meglio di ogni altro compendia gli effetti della crisi finanziaria del 2008 è la disoccupazione, che è aumentata in quasi tutti i paesi, e in alcuni di essi ha raggiunto livelli vertiginosi. Dieci anni dopo, in gran parte dell’Unione la disoccupazione rimane inaccettabilmente alta, ma i leader europei continuano a preoccuparsi degli eventuali costi futuri dell’aumento del debito e del disavanzo in molti paesi, e a disinteressarsi delle conseguenze devastanti della crisi per tanti europei. E anche se l’Europa oggi accenna a riprendersi, questo periodo tanto buio della storia economica verrà ricordato a lungo.

Le fasi prolungate di disoccupazione distruggono un capitale umano e sociale immenso. Tanti giovani europei, anziché sviluppare nuove abilità con una formazione sul campo, sono stati costretti a rimanersene a casa, senza far nulla, carichi di risentimento. Questo stato di cose ha logorato la fiducia dei cittadini verso le istituzioni europee e verso i loro leader, molti dei quali avevano promesso che l’euro avrebbe portato prosperità a tutti. E invece l’euro – o meglio, le insufficienti strutture e le inadeguate politiche che lo circondano – ha provocato una brusca frenata dell’economia, che in alcuni paesi ha condotto alla stagnazione, in altri a una grave recessione, e in qualche caso a una situazione economica perfino peggiore di quella vissuta ai tempi della Grande depressione.


I problemi di fondo della struttura economica e del quadro delle politiche europee sono ancora gli stessi che hanno condotto alla crisi, e ciò rende l’Europa vulnerabile a una nuova crisi. Il sistema non è concepito per reggere a un altro forte shock. E che ci saranno altri forti shock è una certezza: lo insegna la storia economica.

Qualche decennio fa l’Europa fece una serie di errori cruciali, al momento di definire il proprio quadro di politica economica, il cosiddetto Patto di stabilità e crescita. La stabilità cui si alludeva non era quella dell’economia, ma dei prezzi: in pratica, quel patto era un impegno a mantenere l’inflazione a livelli bassi e stabili. Non a caso, non si chiamava «Patto per l’occupazione, la stabilità e la crescita». Se si tiene conto di questa disattenzione per l’occupazione risulta più facile comprendere l’esito, ossia un livello irresponsabilmente alto e prolungato di disoccupazione, soprattutto giovanile, in molti paesi. Le politiche e i vincoli finalizzati all’attuazione del patto non hanno portato né crescita, né stabilità, né tantomeno occupazione.

A distanza di anni dalla crisi, i livelli di disoccupazione sono rimasti straordinariamente alti, soprattutto nei paesi dell’Eurozona più colpiti dalla crisi. Gli esempi più significativi sono quelli della Grecia e della Spagna, dove alla fine del 2017 il tasso di disoccupazione era rispettivamente del 21,5 e del 16,5 per cento: sicuramente migliorato rispetto ai massimi del 2013 – rispettivamente 27,5 e 26,1 per cento –, ma comunque insostenibile. E in buona parte si trattava di disoccupati non occasionali: la disoccupazione a lungo termine era del 18,5 per cento in Grecia e del 13 per cento in Spagna. Nell’insieme dell’Eurozona, alla fine del 2017 erano senza lavoro circa 17,8 milioni di persone: un numero pari alla somma della popolazione dell’Austria e della Bulgaria. Alla fine dello stesso anno, quasi il 22 per cento della forza lavoro totale dell’Eurozona si doveva accontentare di un lavoro a tempo parziale: una percentuale invariata rispetto a cinque anni prima.

Oggi un gran numero di giovani non ha alcuna possibilità di trovare un lavoro sicuro o gratificante in linea con le proprie capacità e aspirazioni: tra coloro che hanno meno di 25 anni, e quelli che non hanno completato gli studi secondari superiori, il tasso di disoccupazione medio europeo è il doppio di quello complessivo: rispettivamente 18,5 e 17 per cento.

È stato un decennio di occasioni perdute, nel corso del quale la disoccupazione di massa è diventata causa e al tempo stesso effetto della disuguaglianza. Molti lavoratori anziani che avrebbero potuto continuare a dare un contributo alla società non ne hanno avuto la possibilità; i giovani hanno dovuto fare a meno di quella prima fase di sviluppo delle competenze che è essenziale per la loro formazione e che inciderà sulla loro crescita retributiva per tutta la vita; e i bambini hanno oggi meno possibilità di avverare le carriere dei loro sogni. La mancanza di un lavoro dignitoso e sicuro ha innalzato la povertà a livelli che molti abitanti dell’Europa occidentale non avrebbero mai immaginato di vedere con i loro occhi nel corso della loro vita.

(…)

A distanza di vent’anni possiamo dire che il Patto di stabilità e crescita concordato dai leader europei è stato un fallimento dal suo stesso punto di vista: non ha portato né crescita, né stabilità, né gli altri ingredienti del benessere di una società. Quel patto ha semmai favorito un forte aumento della disoccupazione.

L’osservanza o meno delle regole del «tre e sessanta» si è rivelata un pessimo predittore dei risultati economici di un paese. I sostenitori del patto spesso ne hanno riformulato gli obiettivi in chiave di «cuscinetto» anticrisi: i paesi devono limitare il disavanzo e il debito quando le cose vanno bene, in modo da poter rispettare le regole in tempi di magra. Ma a prescindere dalla questione se queste politiche siano efficaci nel lungo periodo, non ha senso precipitare un paese in una depressione oggi solo per avere margini di bilancio che evitino una contrazione dell’economia in un remoto domani.

(…)

L’Unione europea ha urgente bisogno di un «Patto per la stabilità, la crescita e l’occupazione»: di un progetto cioè che prenda sul serio l’obbligo dei governi di assicurare che l’economia dia lavoro a chi può e vuole lavorare.

I vantaggi per l’Europa di una maggiore attenzione per l’occupazione dovrebbero essere evidenti. Lavorare è molto importante per l’autostima e il senso di gratificazione personale. E la maggior produzione che ne deriva può essere utilizzata per accrescere il senso di benessere non solo oggi, ma – attraverso l’aumento degli investimenti – anche in futuro. Un incremento della spesa pubblica destinata alle assicurazioni sociali aumenta la sicurezza, quindi accresce il benessere. Analogamente, mercati del lavoro più dinamici sospingono in alto i salari, attenuando la disuguaglianza. Ridurre i divari creati dall’aumento della disuguaglianza, con tutti i benefici sociali e politici che ne conseguono, è possibile.

All’epoca in cui fu sottoscritto il Patto di stabilità e crescita, il mondo era appena uscito da una fase d’inflazione galoppante. Ma oggi il problema non è più l’inflazione: è la disoccupazione. Il grande spettro che ispirò quel patto – lo spettro dell’inflazione – non dà alcun segno di volersi riaffacciare, mentre i pericoli della disoccupazione giovanile e di lungo periodo stanno chiaramente intaccando la fiducia nel sistema.

Non c’è alcuna prova che politiche più espansionistiche e disavanzi maggiori creino automaticamente un’inflazione fuori controllo, soprattutto se la maggiore spesa è mirata su investimenti che migliorino la produttività (aumentando così l’offerta di beni e servizi sul mercato) e se esiste un’ampia capacità produttiva inutilizzata.

All’epoca in cui fu formulato il Patto di stabilità e crescita, la visione macroeconomica era dominata da una teoria semplicistica, secondo cui l’inflazione era sempre e ovunque un fenomeno monetario. Questa credenza onnipresente era il motivo per cui si pensava che la politica monetaria dovesse focalizzarsi sull’inflazione. Inoltre, si era convinti che un forte disavanzo generasse pressioni a «monetizzare» il debito, e che l’unico modo per sostenere queste pressioni fosse impedire a un paese di indebitarsi troppo.

A distanza di oltre trent’anni, le idee alla base di quel patto sono ampiamente screditate. L’enorme espansione dei bilanci delle banche centrali americane, europee e giapponesi durante la crisi non ha creato inflazione: il vero problema era la deflazione. Inoltre, i prezzi globali (anche se il Patto di stabilità e crescita lo ignora accuratamente) sono parte integrante dell’andamento dell’inflazione interna: o, quantomeno, si può dire che la possibilità di acquistare beni all’estero tenga a bada l’inflazione interna.

Uno dei motivi del disinteresse per l’occupazione è stato un eccesso di fiducia nei mercati: la convinzione cioè che lo Stato dovesse limitarsi a fare il proprio dovere, contenendo l’inflazione, il disavanzo e il debito, affinché il mercato si occupasse di garantire crescita e occupazione. Ma queste ipotesi sono ormai smentite da prove schiaccianti. Bassi livelli del debito, del disavanzo e dell’inflazione non sono condizioni necessarie né sufficienti di una crescita forte ed equa: anzi, in molti casi rende più difficile raggiungere quelli che dovrebbero essere obiettivi comuni.

Anziché costruire politiche economiche imperniate sulla paura dell’inflazione, occorre spostare il dibattito sui modi per promuovere una crescita economica equa con piena occupazione. Per offrire lavoro a tutti occorre abbandonare l’austerità, correggere il disallineamento dei tassi di cambio in modo da renderli più equi ed efficienti e investire, di più e con più intelligenza.

(…)

Soprattutto, non va trascurato l’effetto sulla crescita di investimenti pubblici adatti a stimolare a breve termine l’economia e ad accrescere a lungo termine la produttività. Quando i tassi d’interesse sono bassi, la maggiore crescita del Pil per effetto di quegli investimenti compenserà quasi certamente il costo dei prestiti sottoscritti dal governo per finanziarli, riducendo così il rapporto tra debito e Pil.

Gli investimenti pubblici e privati sono spesso complementari. Uno dei principali stimoli a investire, per esempio, è la scoperta di nuove tecnologie grazie agli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, soprattutto ricerca di base. Un aumento degli investimenti pubblici può «attirare» investimenti privati, rafforzando ulteriormente l’effetto moltiplicativo dell’incremento di spesa pubblica a fini d’investimento. Un miglioramento dei sistemi di previdenza sociale può dare agli individui un senso di maggior sicurezza, consentendo loro di spendere di più anche se l’economia frena, il che accresce a sua volta l’effetto moltiplicativo.

In modo estemporaneo l’Unione europea ha forzato a più riprese il Patto di stabilità, vuoi per pressioni politiche dei paesi maggiori, vuoi per urgenze dettate dalla crisi. Tuttavia non ha mai preso iniziative decise per operare una distinzione tra una spesa pubblica orientata ai consumi e investimenti pubblici che aprissero la porta a una crescita più sostenuta nel futuro o promuovessero conseguenti investimenti da parte del settore privato. In altri termini, i limiti al disavanzo potrebbero essere interpretati in modo tale da renderli applicabili solo ai consumi pubblici, escludendo invece dal calcolo gli investimenti pubblici.

L’Unione europea deve quantomeno prevedere un’eccezione al patto, da far scattare in situazioni in cui la Bce non è in grado di ridurre ulteriormente i tassi d’interesse. Come abbiamo già detto, una delle ragioni dell’apparente disinteresse, all’epoca del patto, per le implicazioni macroeconomiche delle regole sul disavanzo era la possibilità di utilizzare gli strumenti di politica monetaria per ricondurre l’Europa alla piena occupazione. Ma quando la crescita ristagna e i tassi d’interesse sono già vicini allo zero, la Bce non può correre in aiuto dell’economia. In queste situazioni, le politiche devono prevedere la possibilità di stimoli di bilancio sufficienti a tornare alla piena occupazione.