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Ormai ci siamo, la legge di Bilancio sta per essere varata dal Consiglio dei ministri, ma i margini di manovra sono davvero pochi. La cornice entro cui muoversi è definita dal Piano strutturale di Bilancio, strumento dettato dalle nuove regole europee approvate anche dal Governo Meloni, ma è bene ricordare che i contenuti del Piano, dove trovare le risorse che servono, non li decide Bruxelles ma Roma. O meglio, decidono Meloni e Giorgetti, che scelgono di tagliare sanità, istruzione, salari pubblici, di favorire partite Iva e evasori, di non tassare le grandi ricchezze.
Nicolò Giangrande, da poco nominato Responsabile dell’ufficio economia Cgil, ci illustra i contenuti del Psb, le ragioni delle critiche della Confederazione che sono anche le ragioni della mobilitazione varata dall’Assemblea Generale nei giorni scorsi.
Partiamo dall’inizio, ci spieghi che cosa è il Piano strutturale di Bilancio?
È un documento nuovo e centrale nella programmazione delle politiche economiche e di finanza pubblica a livello nazionale. È il risultato della riforma delle regole economiche europee approvate lo scorso aprile, dopo la sospensione del Patto di stabilità e crescita decisa durante la crisi pandemica. Con la nuova governance economica europea cambia profondamente il ciclo delle leggi di bilancio: si passa da un orizzonte triennale, anche se di fatto annuale, tracciato dal Documento di economia e finanza (Def) e dalla Nota di aggiornamento (Nadef), a uno pluriennale definito dal Psb. Nello specifico, il nuovo Piano ha due orizzonti: quello della programmazione è pari alla durata della legislatura, 5 anni nel caso italiano, mentre quello per la correzione di bilancio è di 4 anni, estendibile fino a 7 anni se il governo presenta un piano di riforme e investimenti. È vincolante e può essere modificato soltanto per un cambio di governo, o nel caso di circostanze che rendano impossibile la sua attuazione, ma, comunque, qualsiasi modifica dovrà essere rinegoziata con la Commissione europea e approvata dal Consiglio.
Prima di scoprire cosa prevede, una premessa. Il governo afferma che economia e occupazione non sono mai andate così bene. Bankitalia, Istat, Ufficio parlamentare di bilancio dicono che non è proprio così. Dove sta la verità?
La verità è che dopo la pesante recessione del 2020, il rimbalzo del 2021 e la ripresa del 2022, l’Italia nel 2023 è tornata a una crescita dello “zero virgola”. Inoltre, la stima del Pil che il governo ha fatto per il 2024 e il 2025 è troppo ottimistica rispetto al reale andamento dell’economia nell’anno in corso e, per l’anno successivo, risulta sovrastimata rispetto alle previsioni degli organismi italiani, europei e internazionali. Il nostro Paese registra un calo della produzione industriale che prosegue ininterrottamente da 19 mesi e i dati sul mercato del lavoro non sono così entusiasmanti come si vuol far credere.
In che senso?
Sull’occupazione vanno rilevati almeno quattro elementi. Primo, il calo dei lavoratori a termine è legato anche alla ripresa del lavoro autonomo che molto spesso, soprattutto per i più giovani, ha caratteristiche del tutto sovrapponibili al lavoro precario. Secondo, la crescita degli occupati in un contesto caratterizzato da Pil stagnante e ore lavorate in diminuzione indica una bassa qualità dell’occupazione. Terzo, gli effetti della cassa integrazione guadagni (cig), le cui ore autorizzate sono in netta crescita, non si vedono immediatamente nelle statistiche sul mercato del lavoro perché i cassaintegrati escono dagli occupati solo se la loro assenza dal lavoro supera i tre mesi. Quarto, il tasso di occupazione in Italia – che rimane il più basso di tutta l’Unione Europea - sta crescendo non solo per l’aumento degli occupati ma anche per la drastica diminuzione della popolazione in età da lavoro, come ha dovuto riconoscere lo stesso governo nel Psb.
Se con le risorse del Pnrr l’economia italiana è cresciuta così poco, cosa succederà fra due anni quando il Pnrr terminerà?
Dopo il 2026, anno in cui si conclude il Pnrr e il governo prevede l’uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo e quindi l’inizio del percorso di riduzione del debito pubblico, si tornerà a una crescita ancora più bassa. Dal Psb emerge chiaramente come l’azione economica del governo sia del tutto irrilevante nell’orizzonte preso in considerazione: infatti, la differenza tra lo scenario programmatico, cioè quello che incorpora l’impatto delle nuove misure, e quello tendenziale, quindi a legislazione vigente, è minima – appena +0,3 punti percentuali –, talvolta nulla.
Il Psb presentato dal governo e approvato dal Parlamento segna il ritorno all’austerità. 13 miliardi l’anno per i prossimi sette anni cosa significa per il bilancio dello Stato?
Vuol dire riduzione della spesa pubblica che si tradurrà in meno risorse per la sanità, per l’istruzione e la ricerca, per le politiche sociali, per i salari e gli investimenti pubblici, per le pensioni. Insomma, si tratta di un brutale ritorno delle politiche di austerità per sette lunghi anni, cioè ben oltre la durata dell’attuale legislatura e di questo governo. È una ricetta già realizzata in passato e che si è rivelata disastrosa sul piano salariale, occupazionale, economico e di finanza pubblica. Questa volta, però, sarà anche peggio, perché i tagli si scaricheranno sui lavoratori e pensionati che nel triennio 2021-23 hanno visto erodere il proprio potere d’acquisto da una fase prolungata di alta inflazione (il dato cumulato è del +17,3%), determinata principalmente dalla crescita dei profitti, elemento che il governo ha riconosciuto ma sui cui non è intervenuto per porvi rimedio.
Tagli alla spesa pubblica, questa la ricetta del governo: davvero è l’unica strada?
No, assolutamente no. La strada intrapresa dal governo è il frutto di una scelta politica, cioè far pagare l’aggiustamento dei conti pubblici ai redditi fissi. Il governo potrebbe, invece, reperire le risorse necessarie aumentando le entrate, andando a prendere le risorse da chi oggi contribuisce poco, o nulla, pur disponendo di redditi ben superiori a chi vive di salario o di pensione. Il tutto avverrebbe all’interno di un quadro di maggiore progressività ed equità fiscale, come indica chiaramente l’articolo 53 della Costituzione italiana, che però il governo continua ad ignorare sia attraverso i continui condoni che tramite la flat tax.
Ancora una volta le parti sociali non sono state ascoltate prima di scrivere il Psb. Quali sono le richieste della Cgil?
Il Psb, che è stato deciso dal governo senza alcun confronto con le parti sociali, l’abbiamo potuto leggere soltanto dopo che è stato trasmesso al Parlamento. La Cgil, nell’audizione davanti le commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha chiesto che le risorse siano recuperate attraverso la lotta all’evasione fiscale, la tassazione dei profitti e l’istituzione di una wealth tax sulle grandissime ricchezze al fine di garantire la tenuta dello stato sociale e gli investimenti pubblici necessari alla doppia transizione. Inoltre, abbiamo proposto che nel Psb e nei collegati alla legge di Bilancio siano inserite due riforme: la prima, sulla rappresentanza e sul salario minimo per rafforzare la contrattazione collettiva e aumentare i salari; la seconda, sulla legislazione del lavoro per contrastare la precarietà, il lavoro nero e sommerso. Infine, la nostra organizzazione ha chiesto il ritiro dell’autonomia differenziata anche perché sarebbe dannosa sul piano della programmazione economica e per le sue ricadute sociali.