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Il coronavirus non ha colpito solo il turismo, che rappresenta il 45% dei servizi destinati all’esportazione. Anche la moda italiana, con tutto il settore del tessile abbigliamento e della pelletteria, i mezzi di trasporto, l’automobile e in generale il settore dell’automotive sono profondamente scossi dai vari lockdown e dalle chiusure. Saltano le fiere, le sfilate di moda, i saloni dell’auto, si chiudono i mercati tradizionali del made in Italy, i negozi che hanno acquistato i prodotti sono chiusi o non vendono e quindi non hanno ancora avviato le richieste di acquisti per il prossimo anno. L’Italia della manifattura e dell’export è messa a dura prova, in una misura forse ancora più pesante della grande crisi del 2008, mentre ci sono centinaia di aziende che potrebbero chiudere perché non avranno la forza di resistere come i grandi marchi. Le multinazionali straniere accorciano nel frattempo le loro catene globali del valore riportando nei Paesi d’origine pezzi importanti di produzione.
Le statistiche del crollo
I dati ufficiali dell’Istat sono inesorabili. A ottobre l’export – che aveva tentato il rimbalzo dopo la prima ondata di marzo - è tornato a registrare una flessione su base annua ampia: -10%. Crollano le esportazioni verso gli Stati Uniti (-20,1%), verso la Russia (-18,4%), e il Giappone (-15,5%). Le esportazioni di merci verso il Regno Unito della Brexit sono crollate del 14,6%. Sempre a ottobre, per l’area extra Ue, al netto del Regno Unito, si stima che l’export diminuisca del 3,1% su base mensile e del 9,4% su base annua. Nello scenario base, a cui fa riferimento la Sace (società legata a Cassa depositi e prestiti specializzata nei servizi assicurativi per l’export), le esportazioni italiane di beni, in valore, sono attese in forte contrazione nel 2020 (-11,3%), ai livelli di quattro anni fa. Si salvano solo i prodotti chimico-farmaceutici e i prodotti agricoli.
Niente sfilate, niente vendite
È grande la preoccupazione della Fictem Cgil, il sindacato che oltre a tanti altri settori (chimici, elettrici, plastica, ecc) rappresenta i lavoratori e le lavoratrici del tessile, abbigliamento e moda. “Dopo il turismo – ci dice Sonia Paoloni, segretaria nazionale – la moda è il settore più colpito dalla pandemia. Il crollo delle esportazioni collegato allo scivolamento progressivo dei fatturati varia da un meno 30% a un meno 50% in alcuni settori. Da una parte infatti c’è lo stop delle sfilate che sono da sempre il volano del commercio internazionale della moda italiana. C’è poi il blocco delle fiere dove si vendono per esempio calzature. Ma se si perde una stagione, alla fine si perde un anno intero perché gli ordinativi sono fermi”. Oltre alla moda e al calzaturiero la crisi colpisce pesantemente anche il settore della valigeria. “Non è solo questione di ordinativi – spiega Paoloni – quello che incide è anche la modificazione dei comportamenti dei consumatori: non si viaggia più e con lo smart working si va meno anche in ufficio. Conseguentemente non si comprano valigie per viaggiare e magari neppure gli zainetti di pelle da città”. Secondo la dirigente sindacale assisteremo a una feroce scrematura delle aziende del settore. Molte si preparano alla chiusura e quindi ai licenziamenti. Per questo il sindacato chiede di estendere anche al 2021 gli ammortizzatori sociali da pandemia. Ma non basteranno misure tampone. Serve un ripensamento complessivo delle politiche industriali e del commercio internazionale. In questo momento uno dei pochi mercati esteri che ancora tiene per l’Italia della moda è quello della Cina, che però sta ripensando tutte le sue scelte commerciali. Anche la Cina riporta a casa, per esempio, alcune delle sue catene del valore.
Quel motore della Porsche
Fino a qualche mese fa, a Bari, la storica azienda Magneti Marelli produceva il prestigioso motore elettrico della Porsche Taycan. Ora però la produzione è stata interrotta perché l’azienda tedesca ha deciso di riportarsi in patria il lavoro. Ce lo racconta Michele De Palma, che per la segreteria nazionale della Fiom Cgil è responsabile del settore automotive. “Tutti i grandi gruppi multinazionali, spiega De Palma, stanno accorciando le loro filiere produttive all’estero. Cambia il sistema tradizionale del just in time e cambiano i rapporti delle aziende con i governi nazionali. Si sviluppano politiche protezionistiche e nazionalistiche. E in questa grande riorganizzazione mondiale il modello industriale italiano è in grande sofferenza. Appare superato completamente il discorso del piccolo è bello mentre nelle regioni più industrializzate resistono solo quelle aziende inserite in una forte rete di internazionalizzazione”. Ma anche le aziende che fino a qualche tempo fa sembravano sicure e al riparo dalle crisi di mercato con la pandemia stanno subendo pesanti contraccolpi. Il discorso diventa anche più chiaro se si guarda all’Europa nel suo sviluppo più recente dopo l’allargamento a 27 Paesi. “Ci sono posti in Europa dove è stata raggiunta la piena occupazione (come la Polonia e la Cechia per esempio) ma a costi molto alti di dumping salariale e sindacale con gli altri Paesi. Secondo De Palma, dunque per affrontare la grande crisi industriale e dell’export che la pandemia sta preparando non solo non sarà sufficiente affidarsi al mercato, ma non sarà neppure sufficiente pensare una politica industriale nazionale. “A questo punto – dice il dirigente del sindacato dei metalmeccanici Cgil – l’unica vera strada è quella di una politica industriale europea che superi i sovranismi e quindi la competizione senza freni tra classi lavoratrici”. Non ci sono alternative: o l’Europa sarà davvero unita anche dal punto di vista industriale e commerciale, oppure sarà destinata a essere schiacciata nella competizione globale tra Stati Uniti e Cina.
Secondi dopo la Francia
Il tema di un ripensamento generale delle politiche industriali nazionali e delle politiche europee è decisivo anche per il segretario confederale della Cgil, Emilio Miceli che ci ricorda che più della metà dell’export italiano si concentra proprio nel mercato europeo. Tra i Paesi esportatori nell’area Ue l’Italia è al secondo posto dopo la Francia, mentre siamo al secondo posto tra i Paesi manifatturieri dopo la Germania. “È dunque necessario – dice Miceli – mettere in campo politiche che valorizzino e sostengano l’industria anche perché finora l’export è stata la locomotiva della crescita economica nazionale, essendo debole la domanda interna e le risorse finanziarie continuano a indirizzarsi più verso il risparmio che agli investimenti”. Il banco di prova per il dirigente Cgil, è già la legge di Bilancio dove si dovranno fare delle scelte chiare alla luce di questa nuova situazione che si è determinata con la pandemia. Il punto riguarderà le scelte a favore della innovazione e della sostenibilità, temi che interessano da vicino la media impresa, soggetto principale dell’export. La reazione del made in Italy non sarà sufficiente in un periodo di grandi rimescolamenti nella divisione internazionale delle produzioni e delle specializzazioni. Servirà dunque mettere in campo una politica industriale nazionale collegata alla politica di integrazione europea e di cooperazione. L’alternativa peggiore, dopo la Brexit e dopo quello che abbiamo visto negli Usa in quanto a protezionismo, sarebbe quello di rimanere schiacciati nella battaglia delle catene globali del valore.
Non è un gioco solo per grandi
L’Italia al tempo del Covid è dunque obbligata a ripensare le sue politiche e la sua collocazione internazionale. L’urgenza di una nuova politica che abbia una visione strategica è motivata anche da quelle che una volta si sarebbero chiamate le contraddizioni interne al sistema economico e produttivo. Secondo Andrea Coveri, assistente di ricerca della facoltà di Economia di Urbino, la grande industria esportatrice non ha alcun interesse a far riprendere il mercato interno e pensa di cavarsela da sola con le vendite all’estero. Ma è una visione di corto respiro che non potrà che provocare altre crisi e fallimenti delle aziende locali non sufficientemente internazionalizzate. Secondo Coveri il ritardo dell’Italia si rende evidente se si mettono a confronto le caratteristiche del nostro sistema industriale con quello tedesco, visto che l’Italia è al secondo posto in Europa nel manifatturiero dopo la Germania. Lo Stato tedesco sostiene l’internazionalizzazione delle sue imprese, investe risorse ingenti in ricerca e riconversioni eco sostenibili dei prodotti che sono ad alto valore aggiunto e vanta alti livelli di produttività. L’Italia è basata invece su una produzione specializzata di prodotti “maturi” con poca innovazione e che rischiano di frammentarsi a livello internazionale in queste nuove catene del valore che si ritraggono verso i Paesi d’origine. In questo frangente è sicuramente una notizia positiva la resistenza allo shock dei settori farmaceutici e agroalimentari. Ma come è evidente questo non basterà a salvare il made in Italy.