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Le polemiche si sprecano. “Ci chiudono”, “vogliono limitare la nostra libertà”. “Ci segregano in casa”. “Costringono chi ha un’attività commerciale ad abbassare per sempre le saracinesche di negozi, bar, ristoranti”. Teatri chiusi, cinema deserti, coprifuoco e rischio di cadere nel lockdown da un momento all’altro. Insomma è la scena che abbiamo già visto a marzo, ma che ora si ripete minacciosa aumentando lo stato d’ansia. Questa è la facciata. Questo un immaginario collettivo ormai condiviso e apparentemente democratico perché ci colpisce tutti, sembra unirci in un solo destino. Ma che cosa nasconde questa immagine? Come stanno cambiando nel profondo (se davvero stanno cambiando) le nostre società? Come sta cambiando ognuno di noi?
Vulnerabili
In questo periodo si moltiplicano anche le analisi, le inchieste giornalistiche e sociologiche, studi che diventano libri come quello dello psicologo Paolo Crepet che partendo da un’autoanalisi scopre che siamo diventati improvvisamente “vulnerabili”. Per quanto ci riguarda, per non viaggiare solo di fantasia, ci siamo avvalsi dei dati dell’ultimo Rapporto dell’Osservatorio Futura che per conto della Cgil organizza analisi demoscopiche (Geca Italia) sulla situazione economica, sociale e lavorativa del Paese. Su Collettiva (che dedica a questi studi una rubrica sulla sua piattaforma) abbiamo già parlato delle analisi sulla scuola, sullo smart working, sulla nuova precarizzazione del lavoro. (vedi la rubrica Osservatorio Futura sul sito di Collettiva.it). Questa volta prendiamo spunto dai dati di novembre che ci riservano non poche sorprese. La prima sorpresa riguarda il futuro prossimo. Abbiamo paura del contagio e temiamo sempre di più per lo stato del sistema sanitario. Ma al tempo stesso è la possibilità di lavorare che angoscia milioni di persone.
Paura dell’autobus e della metro
In risposta alla pandemia, un intervistato su due non prende più i mezzi pubblici e ha cominciato subito dopo l’estate a limitare le uscite allo stretto necessario. Tra settembre e ottobre il salto qualitativo: è tornata la paura. Nel sondaggio Geca-Osservatorio si scopre che un terzo degli italiani non va più al ristorante o al bar. Il 9 per cento del campione rappresentativo (tutti oltre i 18 anni) ha risposto al pericolo di contagio lavorando da remoto (smart working) o affidandosi allo shopping online. Prima ancora dell'introduzione delle norme restrittive e dell'Italia divisa in zone, gli italiani hanno cominciato ad introiettare il pericolo. I dati forniti dalla ricerca dell'Osservatorio forniscono anche l'altra faccia del "liberi tutti" dell'estate che ha provocato molto probabilmente questa seconda ondata che stiamo vivendo.
Ma la percentuale del 9 per cento ovviamente non si riferisce a tutti i lavoratori che lavorano da casa. Si riferisce solo a quelli che hanno “scelto” questa modalità di lavoro, mentre molto più numerosa è la schiera di coloro che sono obbligati a lavorare da remoto dalle richieste delle aziende. In ogni caso sta cambiando anche la psicologia dei singoli e delle comunità, a maggior ragione ora con le città notturne praticamente deserte. Praticamente all'unanimità le risposte alla domanda sulla necessità di regolamentare lo smart working con i contratti.
Altro che Immuni
Il timore di essere contagiati dal virus del Covid-19 è ormai molto diffuso: poco meno di 3 italiani su 4 (72%) non si sente al sicuro e teme di essere contagiato. Il 29% dei lavoratori che si recano sul posto di lavoro (a tempo pieno o in alternanza con periodi di smart working), nonostante le misure adottate, non si sente completamente sicuro sul luogo di lavoro con riferimento al pericolo di essere contagiato (il 10% non si sente addirittura per nulla al sicuro). Con riferimento alle diverse misure adottate (limitazione degli accessi al luogo di lavoro, distanziamento, igienizzazione degli ambienti e delle superfici, etc) si registra un giudizio appena sufficiente da parte degli intervistati.
Viva gli ammortizzatori
Anche i dati che emergono dallo studio sugli aspetti più propriamente economici ci fanno capire qualcosa di più. Il 62% degli intervistati ritiene che gli ammortizzatori sociali e le altre misure di sostegno economico ai lavoratori siano molto preziosi, anzi essenziali in questa fase di crisi economica. Appena il 19% degli intervistati si dichiara scettico sulla loro utilità. Spulciando tra i dati, scopriamo che la categoria in cui è più diffusa la convinzione che le misure di sostegno siano utili è quella degli imprenditori (due su tre). Tale convinzione è diffusa anche tra i lavoratori iscritti al sindacato (7 su 10) e cresce all’aumentare del benessere degli intervistati. Ma come succede sempre c’è anche l’altra faccia della medaglia: il 43% degli intervistati ritiene che gli ammortizzatori sociali e le altre misure di sostegno economico ai lavoratori non siano più sufficienti a compensare la riduzione dei redditi da lavoro. I più critici risultano i lavoratori dei servizi e coloro che versano in grave difficoltà economica e sono ormai costretti ad indebitarsi (oltre uno su due). Infine il 55% del campione ha timore che gli ammortizzatori sociali straordinari non vengano prorogati oltre al termine del periodo di emergenza già definito dal governo. Anche qui le preoccupazioni sono più diffuse tra gli imprenditori (oltre 6 su 10), i lavoratori dei servizi e gli occupati del settore privato e raggiungono il picco tra quanti versano già in grave difficoltà economica e sono costretti a fare debiti (dove raggiunge la quota di due su tre).
Famiglie in difficoltà
La situazione economica delle famiglie italiane si conferma molto critica: un intervistato su due (49%) dichiara di essere in difficoltà. Il 6% del campione si dice costretto a fare debiti. Solo il 42% dei rispondenti a ottobre (erano il 43% a settembre) riesce a destinare al risparmio una quota delle proprie entrate mensili ed appena il 17% riesce a destinarvi oltre il 10% delle entrate. Il disagio maggiore (con le famiglie costrette a contrarre debiti) si registra più frequentemente tra le Partite Iva (1 su 10) e tra i disoccupati (14% del totale). Con riferimento ai settori di occupazione, si raggiunge il picco tra gli occupati nel settore primario.
Le donne che lavorano stanno peggio
Cresce la quota dei lavoratori che denuncia un peggioramento delle condizioni. In ottobre il 31% degli occupati intervistati (era il 30% a settembre) dichiara un peggioramento delle condizioni di lavoro negli ultimi 2 mesi. Un netto peggioramento delle condizioni viene dichiarato dal 14% degli intervistati. Ma è interessante andare a leggere i dati scorporati. I segmenti più colpiti sono infatti quelli delle donne (il 18% di loro denunciano un netto peggioramento delle condizioni lavorative), la fascia dei 45-54enni, gli imprenditori, le partite Iva, i colletti blu, gli occupati del settore primario e terziario.
Spiragli di resilienza
Tra i tanti dati negativi e le tante preoccupazioni, bombardati come siamo ormai ogni giorno dai bollettini sanitari sull’aumento dei contagi, nelle notizie di cronaca e nelle analisi demoscopiche rischia di sfuggirci l’elemento positivo. Nella prima fase della pandemia forse era più facile mettere in campo l’ottimismo della volontà. Ed era più facile scoprire gli elementi di resilienza e di risposta sociale alla pandemia. Non è stato un caso che si è parlato di eroi (anche se poi non sono stati premiati come meritano). E non è un caso che nella comunicazione pubblica (perfino nella pubblicità) sono stati introiettati elementi psicologici utili a farci reagire e a limitare le paure. Nel rapporto dell’Osservatorio Futura sono interessanti le risposte date al sondaggio su una delle trasformazioni più evidenti dell’organizzazione del lavoro e della nostra vita in generale. Il 25% dei lavoratori intervistati (senza considerare gli imprenditori) gradirebbe lavorare in smart working anche dopo l’emergenza sanitaria per tutta la settimana o per buona parte di essa. Anche se, per bilanciare questo dato, i ricercatori di Geca fanno notare che la quota dei fan dello smart working è calata in ottobre di 3 punti percentuali rispetto a settembre. Ovviamente anche in questo caso conta la componente generazionale visto che le difficoltà di adattamento sono superiori tra gli ultra cinquantacinquenni. In compenso si registra un piccolo boom dei corsi di introduzione all’informatica per i più avanti con l’età. Insomma i più anziani si rimettono a studiare. I più giovani sono costretti a studiare chiusi nelle loro stanze, appiccicati ai computer e questa volta non più solo per chattare con gli amici che non possono più incontrare "in presenza". Questa è anche l'epidemia della solitudine.
Qui potete leggere Il rapporto completo dell'Osservatorio Futura in pdf