Tanti banchetti, nelle feste di partito e sindacali, lungo le spiagge e le vie montane delle vacanze, nelle piazze e nelle strade o nei parchi pubblici delle città. E anche una piattaforma on line(per firmare clicca qui),  per raccogliere 500mila firme in 70 giorni in calce al quesito referendario per abolire la legge sull’Autonomia differenziata. Una norma che spacca il Paese, rendendo più deboli e soli lavoratori e lavoratrici, pensionati e pensionate del Nord, del Sud e del Centro. Minando l’economia di tutte le regioni, rinunciando a una politica industriale, energetica, ambientale nazionale, rendendo l’Italia più fragile in Europa e nel mondo. Sancirà la fine del sistema di istruzione della Repubblica, minando l’identità cultura del Paese, e la morte del già malato servizio sanitario nazionale. Ne parliamo con Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil.

Questa mattina si avvia la raccolta di firme in calce al quesito referendario per l'abolizione dell'autonomia differenziata. Ieri la Cgil ha consegnato un milione di firme in calce a ciascun referendum per la dignità del lavoro, esiste un legame tra queste due giornate?

Sono due facce della stessa medaglia. Abbiamo sempre sostenuto che la questione democratica e istituzionale è inscindibilmente intrecciata con la questione sociale. La crisi della nostra democrazia ha radici profondee dipende innanzitutto dalle condizioni materiali di vita e di lavoro di una larga fascia della società, che sono in peggioramento da anni e non trovano nessuna risposta da parte delle istituzioni. Milioni di cittadine e cittadine non credono neanche più nella possibilità che la partecipazione democratica possa incidere positivamente sulle loro prospettive. Se vogliamo davvero salvare la nostra democrazia non ci sono scorciatoie: va affrontata e risolta la questione sociale. Per questo abbiamo raccolto quattro milioni di firme per i referendum sul lavoro, che hanno l’obbiettivo di sconfiggere una precarietà che, da lavorativa, sempre più spesso si trasforma in esistenziale, soprattutto per le donne e le nuove generazioni. Per la stessa ragione vogliamo abrogare la legge Calderoli, destinata inevitabilmente ad aumentare i divari territoriali e a peggiorare le già insopportabili diseguaglianze sociali. Non è dunque solo un tema di architettura istituzionale dello Stato. L’autonomia differenziata mette in discussione due pilastri dell’unità nazionale: la scuola e il contratto collettivo nazionale di lavoro; e rischia di demolire il welfare pubblico e universalistico, a partire dal servizio sanitario nazionale. In questo senso, conquistare un lavoro di qualità, dignitoso e sicuro e dire sì all'Italia unita, libera e giusta fanno parte della stessa battaglia.

Ci spieghi perché l'autonomia differenziata renderebbe l’Italia meno giusta?

Perché aggiungerebbe alla competizione sociale, che ha raggiunto livelli intollerabili, anche la competizione territoriale, mettendo le Regioni una contro l’altra per contendersi le scarse risorse disponibili. E perché favorirebbe il dumping territoriale con le gabbie salariali e con la regionalizzazione della legislazione in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, spingendo le aziende a investire dove le regole, in questa delicatissima materia, sono meno stringenti.

Perché farebbe male anche alle regioni del Nord?

Innanzitutto, perché comprometterebbe la possibilità per il Paese di sviluppare politiche nazionali in ambiti strategici come l’energia, le reti, le infrastrutture, le telecomunicazioni, i trasporti, la ricerca scientifica, l’ambiente e altro ancora. Si tratta di materie per le quali non basta nemmeno la dimensione nazionale, e occorrerebbe almeno quella europea, figuriamoci se possono diventare di competenza esclusiva delle Regioni. Frammentare il Paese in questo modo, lo renderebbe irrilevante dal punto di vista politico, economico e industriale, ininfluente a livello continentale. Tutto ciò comprometterebbe le prospettive di sviluppo anche del sistema produttivo settentrionale. Non solo, anche la condizione di lavoratori e lavoratrici, di pensionati e pensionate del Nord verrebbe danneggiata dal superamento del Ccnl e dallo smantellamento dello stato sociale. La verità è che, con le crisi geopolitiche in corso e la recessione della Germania, solo rilanciando la domanda interna, a partire da dove è più debole, e valorizzando l’interdipendenza tra l’economia del Centro-Nord e quella meridionale, riusciremo ad agganciare una crescita solida e duratura. In definitiva, le persone che rappresentiamo non hanno nulla da guadarci dalla divisione dell’Italia in tante piccole patrie, tenute insieme dall’uomo o dalla donna soli al comando, e gli operatori economici verrebbero certamente penalizzati dal moltiplicarsi di regole e burocrazia a livello regionale, che creerebbe una giungla normativa inefficace e inestricabile.

Perché con l’autonomia differenziata l'Italia sarebbe meno libera?

Perché verrebbe compromessa la possibilità di proiettarci come grande sistema paese in Europa e nel mondo. Un mondo popolato da giganti politici ed economici che finirebbero per schiacciare una realtà frammentata e divisa. Inoltre libertà vuol dire, innanzitutto, libertà dal bisogno: obbiettivo irraggiungibile con un lavoro ancor più povero dell’attuale e con i diritti sociali che diventerebbero esigibili sulla base della famiglia in cui si nasce e del territorio in cui si vive.

Approfondiamo allora la questione dei diritti. La relazione del Civ dell’Inps appena diffusa attesta che questo governo ha sottratto oltre dieci miliardi agli strumenti di contrasto alla povertà. Con l’autonomia differenziata i poveri sarebbero più poveri?

Lasciare alle Regioni più ricche il cosiddetto “residuo fiscale” priverebbe le politiche sociali e di coesione nazionale di risorse fondamentali, delle gambe su cui stare in piedi e camminare. Già oggi abbiamo una sanità pubblica che non garantisce, in larga parte del Paese, un diritto fondamentale come quello alla salute. Con l’autonomia differenziata verrebbe favorito il processo di privatizzazione del servizio che molte Regioni stanno portando avanti. Il venir meno di una scuola pubblica e nazionale di qualità comprometterebbe ulteriormente una situazione in cui – per la mancanza del tempo pieno o prolungato – un bambino o una bambina della Campania, se si considera l’intero ciclo della primaria, frequenta la scuola un anno in meno rispetto a un suo coetaneo del Centro-Nord. In un simile contesto, le persone più fragili verrebbero ancor più marginalizzate e abbandonate a sé stesse.

Per un’Italia libera e giusta, questi due aggettivi qualificano la campagna contro l’autonomia differenziata: se la legge Calderoli entrasse pienamente in vigore cosa significherebbe per le donne?

Ogni Regione deciderà, ancor più liberamente di oggi, quanti consultori far funzionare, di quanto personale dotarli, se e come rendere esigibile la legge 194. Stesso discorso vale, per esempio, per gli asili nido, il cui numero insufficiente è una delle ragioni che ci vede agli ultimi posti in Europa per occupazione femminile. Ma sarebbe l’intero mondo del lavoro a soffrirne. Ho fatto cenno a cosa vorrebbe dire regionalizzare la competenza legislativa su salute e sicurezza. Ci torno perché per la Cgil questo è un tema decisivo, prioritario rispetto a tutti gli altri. Attualmente, la gestione dei servizi di controllo, prevenzione e sorveglianza è in capo alle Regioni, che spesso non possono o non vogliono investire a partire, ad esempio, dall’assunzione degli ispettori e del personale, che rappresenta il primo passo per cercare di fermare la strage in corso. Con la legge Calderoli, le cose potrebbero perfino peggiorare, disarticolando il quadro legislativo vigente.

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Siamo in epoca di grandi trasformazioni digitali, ambientali, energetiche: tutte competenze che secondo la legge Calderoli potrebbero essere assegnate in via esclusiva alle Regioni. Cosa comporterebbe?

Spogliare lo Stato di queste competenze, attribuirle in via esclusiva ad ogni singola Regione equivarrebbe a rinunciare a un governo nazionale unitario delle politiche economiche, industriali, di sviluppo del Paese. Sarebbe, per dirla con Isaia Sales, “la nostra Brexit”. Questo è l'aspetto che rende antistorico il progetto: siamo di fronte a sfide epocali come la riconversione ecologica, la transizione digitale, l’intelligenza artificiale. Come possiamo pensare di affrontarle ripiegando localmente Regione per Regione, sapendo che le Regioni non hanno la massa critica e nemmeno la capacità amministrativa, politica e culturale per governare e gestire questi processi? Serve invece prendere una direzione opposta: dovremmo batterci per un Paese unito, forte, libero, per una maggiore integrazione europea, per dire no al ritorno dell’austerità, per rilanciare il modello di Next Generation Eu e dire sì al debito e agli investimenti comuni dell’Unione.

Oggi parte la raccolta di firme: banchetti, piattaforme per la sottoscrizione online. Come si dispiegherà sui territori?

Innanzitutto, siamo riusciti a costruire un comitato promotore del referendum che ha visto la convergenza di un larghissimo arco di forze sociali, politiche, associative e di tante realtà della società civile e della cultura, che condividono l'obiettivo di condurre insieme questa battaglia e di farlo nella maniera più articolata, capillare e diffusa possibile. Sarà un’impresa molto complicata raccogliere 500mila firme nel pieno della stagione estiva, ma abbiamo molti argomenti convincenti e abbiamo creato le condizioni organizzative per riuscirci. Da oggi saremo con i banchetti ovunque: dalle feste di partito alle spiagge, dalle piazze delle città ai luoghi di lavoro, e stiamo investendo molto anche sulla piattaforma online per la raccolta delle firme digitali. Questa è la prima occasione per coinvolgere e informare le persone in maniera diffusa: dobbiamo sfruttarla nel migliore dei modi, perché c'è bisogno innanzitutto di costruire una consapevolezza larga e generale sui rischi e sui pericoli concreti che corre il nostro Paese. Non ho alcun dubbio che ce la faremo. In questo modo, il referendum per abolire la legge Calderoli si celebrerà insieme ai nostri referendum sul lavoro: il modo più concreto, come dicevamo all’inizio, di tenere insieme la questione sociale con la questione democratica e far conoscere a tutte e tutti l’idea di Italia che abbiamo in mente e vogliamo realizzare. Un’idea alternativa rispetto a quella della destra che, con l’autonomia differenziata vuole spaccare il Paese, con il premierato marginalizzare il Parlamento e il Presidente della Repubblica, con la controriforma della giustizia dare un colpo definitivo all’autonomia della magistratura. Vogliono archiviare la Costituzione antifascista nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro. Noi vogliamo e dobbiamo opporci a questo disegno autoritario, e farlo non in chiave conservativa, ma per cambiare profondamente l’attuale modello sociale e di sviluppo, superando una volta per tutte la distanza tra quanto prevede la Carta costituzionale e la realtà concreta che vivono le persone in carne e ossa.

Un'ultima domanda: il modello di società del centrodestra è fondato sull'uomo o sulla donna sola al comando, un modello molto verticistico e individualista. Lo strumento referendario allude a un modello fondato sulla partecipazione, c'entra la scelta referendaria anche con l'avvio di una nuova stagione democratica, con offrire al Paese un modello di società differente?

Sì, noi siamo profondamente convinti che il primo passo per difendere la democrazia è praticarla. Lo strumento referendario è un istituto di democrazia diretta, consegna ad ogni singolo cittadino e cittadina la possibilità di votare per contare, per cambiare davvero le cose. Questo è il messaggio di fondo: a un'idea che punta a concentrare, verticalizzare, personalizzare il potere in un modo che non ha precedenti e paragoni in nessuna democrazia occidentale; a una concezione del popolo come un’entità amorfa, indistinta, individualizzata, che va chiamata una volta ogni cinque anni per sottoscrivere una delega in bianco a chi poi deciderà del futuro del Paese senza doverne rendere conto a nessuno per l’intero mandato; noi opponiamo una visione radicalmente alternativa, quella della nostra Costituzione. Bisogna partire dal basso, coinvolgere le persone, aprire spazi di partecipazione e di protagonismo, anche attraverso lo strumento referendario. Abbiamo un’occasione irripetibile che non possiamo lasciarci sfuggire: invertire per la prima volta dopo 30 anni il processo di precarizzazione e svalorizzazione del lavoro e, contemporaneamente, difendere e attuare la nostra Costituzione, che significa affermare il diritto a un lavoro libero e dignitoso, alla sanità e all'istruzione pubblica, alla progressività fiscale e a tutto il resto che sappiamo. Siamo sicuri di dare, così, un contributo decisivo per rivitalizzare in termini più complessivi e generali la democrazia del nostro Paese.

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