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Il segretario confederale della Cgil, Emilio Miceli, parte dal commento sugli ultimi dati Istat sul crollo della produzione industriale per illustrare le proposte per uscire dalla pesante crisi economica determinata dalla pandemia.
Per la ripresa sono stati stanziati 100 miliardi di euro, che saranno destinati alle imprese per garantire liquidità e sostegno. Al quadro già preoccupante del post Covid-19, si aggiungono ora i nuovi dati Istat sulla produzione industriale. Qual è il giudizio della Cgil?
I numeri sulla produzione industriale diffusi dall'Istat, -42% su base annua, non ci colgono di sorpresa. Registrano ciò che sappiamo, ovvero che l’industria in questi mesi è stata sostanzialmente bloccata. Un fermo che si è riverberato, in aprile, sulla mancata vendita di autoveicoli e sulle pesanti perdite nei settori moda (-80 per cento) e trasporti (-74 per cento). L’Italia ha cercato di rispondere alla crisi tenendo ovviamente conto delle risorse disponibili. Possiamo dire che protezioni sociali e aiuti all’impresa sono stati i due grandi capitoli di spesa. Non so se le risorse stanziate saranno alla fine sufficienti, sia per gli ammortizzatori sia per le aziende.
Tutto questo lo vedremo nelle prossime settimane, sulla base della ‘riapertura’ in corso. Cosa aspettarci?
Sappiamo bene di dover fronteggiare una crisi dovuta sia alla caduta della domanda interna e internazionale sia del mercato. Il pacchetto di aiuti potrà beneficiare delle risorse messe a disposizione da Bce e Unione Europea. Sarà anche decisivo capire se e come ci sarà una stagione turistica, cosa avverrà nel sistema commerciale, come ci riprenderemo i 400 miliardi di Pil prodotti dalle nostre esportazioni. Siamo a un punto delicato della storia del nostro Paese e credo non saranno sufficienti i primi interventi già decisi con i decreti ‘liquidità’ e ‘rilancio’. È importante sapere quante risorse vengono messe a disposizione con fondi nostri ed europei, attraverso finanziamenti o ricapitalizzazioni, ma sapere quando diventeranno fruibili è ancora più decisivo.
Il fattore tempo è davvero così determinante come sembra?
Va detto subito che, guardando alla concorrenza internazionale, non possiamo permetterci di arrivare in ritardo perché perderemmo quote di mercato a beneficio degli altri. Sono annunciati 98 decreti attuativi nelle prossime settimane: dovremo essere rapidi negli aiuti a chi è in difficoltà e nell’indirizzare una quota consistente degli investimenti pubblici per aiutare il sistema d’impresa a cambiare sia il modo di produrre sia il prodotto. La dimensione della crisi è molto seria: ci attende una fase dura, sarà necessario tutto il senso di responsabilità degli attori istituzionali, sociali e politici. Non abbiamo vissuto una parentesi che si è chiusa, ma dovremo convivere nel tempo con l’esigenza di coniugare costantemente risanamento e sviluppo, consolidamento e modernizzazione.
Torniamo sulle risorse: dovranno essere indirizzate e avere vincoli, come chiede il sindacato?
È interesse di tutti, delle imprese anzitutto, indirizzare gli investimenti in modo da essere più competitivi e sostenibili. La scommessa è mettere a frutto le risorse messe a disposizione, senza precedenti nella storia del Paese, anche per avviare quel cambio di ‘modello’ reso fruibile dalle acquisizioni scientifiche e tecnologiche, sia sul versante dell’innovazione sia su quello energetico. Va detto che sono troppi i soldi messi a disposizione per non tentare di cambiare l’Italia. In questo senso non comprendo la posizione di Confindustria che chiede, al tempo stesso, maggiore produttività e sostegno a fondo perduto per le imprese. Poi, se pensano che il costo del lavoro e il contratto nazionale siano la causa della perdita di competitività, davvero siamo su un altro pianeta. Ma questo è un altro discorso.
In questo senso, allora, cosa deve chiedere lo Stato alle aziende?
Le risorse vanno destinate all’Italia, devono puntare a salvaguardare l’occupazione e a evitare delocalizzazioni. Toccherà anzitutto alle grandi imprese sovranazionali distinguere le funzioni ‘corporate’ da quelle indirizzate al mercato domestico. In generale, credo sia una necessità per le imprese quella di cambiare. Gli investimenti saranno redditivi se permetteranno di accelerare la fase di transizione energetica. Nessuna crisi ha prodotto passi indietro nella storia del pianeta: ogni nuovo modello di economia e di società è nato da grandi ristrutturazioni e grandi crisi, sarà così anche stavolta. Basta solo osservare il livello di investimenti, nei processi e nei prodotti, decisi nella fase pre-crisi dai grandi gruppi italiani ed europei in direzione della sostenibilità. C’è già un gigantesco cambiamento del mix in corso, sarà utile dargli maggiore spinta, considerando però che ci sono punti dolorosi di ritardo dovuti alle caratteristiche di mercato.
Lo Stato si mostra questa volta presente, ma sembra volersi limitare a iniettare risorse nel sistema produttivo senza cambiarlo. Cosa si dovrebbe fare per sfruttare l’opportunità di innescare una vera trasformazione ecosostenibile?
Gli ultimi numeri dell’Istat e le stime dell’Ocse su Pil e debito ci mettono di fronte a scenari mai conosciuti sia sul versante economico sia sui livelli occupazionali. Senza una forte coesione e un forte indirizzo unitario in sede europea non saremmo in grado di fronteggiare uno scenario così impegnativo. L’Italia è un grande paese industriale: è parte integrante della domanda internazionale dell’automotive innanzitutto, è presente nella siderurgia, nella moda, nell’aerospazio, nell’alimentare, nella farmaceutica, nell’industria della difesa e nella microelettronica. Ha grandi distretti industriali, dalla ceramica al biomedicale. Qui, in Italia, i cinesi hanno deciso di costruire uno stabilimento d’alta gamma per macchine elettriche in Emilia Romagna, nonostante lo Stato, la burocrazia, un disordine nelle competenze e nelle attribuzioni da terzo mondo. Non è poco. Significa che abbiamo storia e professionalità.
Quali sono le filiere su cui investire? e su quali riconversioni industriali puntare?
La riconversione riguarda oggi il modello industriale, direi il sistema paese, e dunque riguarda tutti: chi produce macchinari e chi produce energia, auto o navi. Piuttosto mi preoccuperei di quello che non c’è, perché la mobilità cambia e deve diversificare il prodotto. Dovremo difendere e cambiare la siderurgia, perché non c’è industria senza siderurgia. Siamo il paese di Giulio Natta, e per questo essere all’altezza dei cambiamenti della chimica industriale. È un compito immenso ed esaltante. Dovremo, inoltre, provare a tornare grandi nel sistema delle telecomunicazioni e digitalizzare l’Italia.
Quella che abbiamo di fronte potrebbe essere anche una grande occasione democratica. Tutti devono dare il loro contributo per il cambiamento. Come si prepara la Cgil?
Si è deciso per decreto di ‘chiudere in casa l’Italia’ e le persone hanno rispettato questa decisione: a Nord, dove la pandemia è ancora oggi una minaccia, e a Sud, dove si è diffusa con minore intensità. Ovviamente vedo con apprensione la delicatezza della situazione sociale. Alcuni mestieri sembrano essere destinati a un forte ridimensionamento, tante certezze sono state messe in discussione. È presto per dirlo, ma sembra esserci una riconsiderazione nei consumi, nelle abitudini, nei comportamenti. Sembra stiano cambiando il modello di società, le gerarchie sociali. Le crisi di mercato siamo abituati a vederle, ma una crisi dei consumi di questa natura è un elemento di novità assoluta. Anche per la nostra democrazia. Si avverte l’esigenza di una grande serietà e di una grande responsabilità da parte dei soggetti fondamentali della rappresentanza. Non è la prima volta che l’Europa è di fronte a passaggi così estremi. È il momento, insomma, anche dell’ottimismo della volontà.