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La Commissione europea ha annunciato nuovi dazi da applicare alle auto elettriche cinesi, dando vita a quello che ha tutte le caratteristiche di un adeguamento alle politiche statunitensi in materia di importazioni dalla Cina. All’attuale aliquota del 10% si aggiunge un’addizionale che tra il 17 e il 38%, mentre gli Stati Uniti hanno accresciuto i dazi del 100%. Il motivo addotto sta nei “sussidi ingiusti” che lo Stato cinese dà all’automotive e che “stanno causando un rischio di danno economico ai produttori europei”.
Oltre alla Cina, a protestare per la decisione di Bruxelles sono la Germania e l’industria automobilistica Stellantis. La prima, seguita da Ungheria e Svezia, per ragioni di restringimento del proprio mercato dell’export verso il Paese asiatico, la seconda perché ha di recente chiuso un accordo con il partner cinese Leapmotor che da settembre porterà le sue auto in Europa, quindi anche in Italia, con una rete di 200 venditori .
Per l’economista Vincenzo Comito, già docente alla Luiss e all’Università Carlo Bo di Urbino, il motivo principale della decisione di Bruxelles risiede nel fatto che “l’Europa, in buona sostanza, è semplicemente un dipartimento del governo degli Stati Uniti. Quindi quello che dicono gli americani gli europei fanno, come sostengono anche autorevoli esperti di geopolitica. Sul piano industriale assistiamo a un paradosso grottesco che vede i produttori tedeschi, Stellantis, ma anche Volvo e Renault, essere contrari e mostrare di non avere bisogno della salvaguardia addotta come motivo dalla Commissione europea”.
La deriva del Vecchio Continente
Da un punto di vista molto più generale, secondo Comito, questa è una delle dimostrazioni che “l'Europa è alla deriva”, perché Stati uniti e Cina “sono in grado di reggere questa spinta enorme delle nuove tecnologie, e quindi le economie di domani, mentre il vecchio continente sta perdendo i suoi settori tradizionali e non è in grado di inserirsi in quelli nuovi. La Commissione Europea scherza col fuoco: l'auto è stata ed è ancora in parte il motore principale dell'Industria europea, basti pensare che in Germania impiega circa 15 milioni di persone tra diretti e indiretti e, se si mette in crisi questo settore, si mette ancora di più in crisi un'Europa che peraltro lo è già”.
L’economista ci ricorda infatti che la Germania produce in Cina la parte più consistente del suo fatturato e che non solamente Stellantis, ma anche Renault e Volvo hanno accordi importantissimi con gli stessi cinesi. “Quella dei dazi europei è veramente una mossa azzardata – prosegue – perché la Cina si addolora, ma può anche fregarsene, perché l’export di auto verso l’Europa è una parte minima del loro bilancio commerciale e i suoi grandi produttori, come la Byd, hanno margini talmente alti che si mangiano tranquillamente i dazi”.
I paradossi
Inoltre, i cinesi potrebbero mettere in campo delle contromisure, come i dazi su moda e prodotti agricoli che colpirebbero principalmente Italia e Francia. Per l’economista, dunque, “il caso più grottesco è quello italiano, dove da mesi il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, cerca di coinvolgere i cinesi perché aprano delle fabbriche dell'auto in Italia, mentre dall'altro si dichiara entusiasta dei dazi imposti ai cinesi. Stiamo tornando al protezionismo, che, sappiamo, negli anni 30 ha distrutto l’economia”.
C’è poi un altro paradosso: “La Cina è accusata di fare dumping sui prezzi delle auto che sono molto più bassi che in Europa. Così gli Stati Uniti stabiliscono dazi del 100%, ma a questo punto i consumatori americani saranno costretti a comprare delle auto tradizionali americane che costano il triplo e sono di qualità inferiore. Tutto ciò rallenta fortemente il passaggio all’energia pulita. Questo avviene anche i molti altri settori, uno su tutti quello dei pannelli per l’energia solare”.
Accordi e non dazi
“Con questa politica dei dazi, dei blocchi e delle minacce anziché isolare la Cina sarà l’Europa a rimanere isolata”, afferma l’economista. E lo dimostrano le proporzioni relative al prodotto interno lordo: “Il Pil dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, calcolato con i criteri della parità dei poteri di acquisto, è più del 60% del Pil mondiale. I G7 hanno ormai perso la primazia, perché i primi sette paesi del Sud del mondo messi insieme hanno un Pil più alto di quello dei G7 che dovrebbe essere il club dei Paesi più ricchi. Quindi, se non troviamo il modo di adeguarci al nuovo che avanza, alla lunga siamo fritti noi e non loro. Bisogna trovare accordi, non andare a colpi di dazi”.