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Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha divulgato la scorsa settimana le sue previsioni per l’economia mondiale, rivalutando al ribasso la crescita prevista per l’Italia per il 2022. Dopo la crisi dovuta al Covid, che ha portato il Pil italiano a diminuire del 9% nel 2020, ci si aspettava che il “rimbalzo” del 2021 proseguisse quest’anno riportando l’Italia ai livelli – non esaltanti, a dire il vero – del periodo pre-crisi.
L’arrivo della guerra in Ucraina e soprattutto il rialzo dei prezzi dell’energia e delle materie prime hanno avuto però un impatto negativo immediato sull’economia italiana. Le stime del Fmi sono state confermate dall’Istat, che ha certificato pochi giorni fa che nel primo trimestre del 2022 il Pil italiano è diminuito dello 0,2%. A pesare sulla crescita secondo il Fondo Monetario non sarà tanto la spesa pubblica, che sarà quest’anno più o meno in linea con quella degli altri paesi europei, ma la spesa privata. I consumi delle famiglie cresceranno infatti solo del 2,3% nel 2022, il tasso più basso tra tutti i Paesi avanzati. La domanda interna a sua volta è e continuerà a essere pesantemente condizionata dall’inflazione, il cui tasso di crescita raggiungerà nel 2022, sempre secondo il Fmi, il livello record del 5,3%. Si tratta di uno dei tassi più alti dell’eurozona, e si situa sopra a quello tedesco, francese e spagnolo.
Ma quali saranno per i lavoratori le conseguenze dell’inflazione combinata a un ristagno dell’attività economica (ciò che in gergo si chiama stagflazione)? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto rendersi conto che l’inflazione misura l’incremento di prezzi di cose molto diverse tra loro: materie prime, prodotti industriali, servizi, salari. Il livello medio dell’inflazione può quindi nascondere al suo interno grandi differenze. È proprio guardando a queste differenze che ci si rende conto che a crescere (e spropositatamente) sono i prezzi dell’energia, delle materie prime, e dei beni industriali che dipendono ovviamente dai rincari di gas, elettricità, grano, e altri prodotti di base.
A rimanere molto bassi sono invece, ancora una volta, i salari. L’Istat prevede una crescita media delle retribuzioni dello 0,8% per il 2022, di fronte a un’inflazione del 5,3%. Significa una perdita netta di potere di acquisto di almeno il 4,5% (altre stime parlano addirittura del 6%). Tutto questo nell’unico paese avanzato che ha visto i salari reali ridursi – del 2,9% - negli ultimi trent’anni.
A risentire maggiormente delle conseguenze negative dell'inflazione saranno quindi coloro che percepiscono dei redditi fissi, come i lavoratori dipendenti e i pensionati, nonché molti lavoratori autonomi privi di potere contrattuale. In un contesto in cui i prezzi dei beni stanno aumentando, i salari nominali vengono aumentati solo periodicamente in occasione dei rinnovi contrattuali. La conseguenza è una riduzione dei salari reali. Tradotto, a parità di salario si farà più fatica a far fronte a spese sempre più elevate.
Quali misure dovrebbe prendere il governo per contrastare questo problema economico con potenziali conseguenze sociali? Bisogna innanzitutto aumentare i salari. Lo Stato può intervenire direttamente su quelli pubblici e sulle pensioni, ma può anche intervenire sul mercato del lavoro, che va irrigidito, per esempio ristabilendo le causali per le cessazioni dei contratti a termine. La flessibilità del mercato del lavoro non ha infatti rispettato la sua promessa – quella di essere motore di crescita per il Paese – e si è rivelata invece un modo per le imprese italiane per comprimere i costi invece di innovare. Con conseguenze catastrofiche per tutti. In secondo luogo, serve una legge sulla rappresentanza sindacale, per ridare potere contrattuale ai lavoratori nei confronti delle imprese.
Se l’aumento dei salari è senz’altro la più importante misura necessaria oggi per contrastare gli effetti dell’inflazione sui lavoratori – misura che porta a interrogarsi anche sulla possibilità di introdurre un minimo salariale – ci sono altri accorgimenti che si posso prendere per ridurne l’impatto. Si potrebbe ad esempio bloccare la crescita degli affitti: in un paese di proprietari di case, sono spesso le fasce medio-basse della popolazione residenti nelle città e nelle metropoli a sopportare il caro affitti, insieme a commercianti e partite Iva.
Infine, anche la spesa sociale va aggiornata. Di fronte a circostanze eccezionali come quella che stiamo vivendo, dove una guerra in suolo europeo si è avvicendata a una pandemia, non sarebbe fuori luogo chiedere un contributo di solidarietà a chi ha di più, per dare a chi ha di meno. Una sorta di patrimoniale, insomma, per ripristinare la progressività del sistema fiscale e non scaricare il peso della stagflazione solo sulle spalle dei lavoratori.
Stefano Ungaro è economista senior alla Banca di Francia