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La bussola del lavoro sindacale, ci spiega il segretario generale della Slc Cgil, è sempre quella di tutelare, e possibilmente, estendere i diritti di lavoratori e lavoratrici e contribuire allo sviluppo del Paese. Con lui una riflessione a tutto campo sui settori del perimetro della categoria, dalla Tim alla Rai fino ad arrivare a mettere in valore quanto fatto per la legge quadro per lo spettacolo. Sullo sfondo la crisi determinata dall'inflazione portata dalla guerra e non solo.
Partiamo da Tim. È stato siglato un accordo con l'azienda che riguarda una riduzione dei costi su personale e lavoro. Lo avete fatto nonostante la mobilitazione contro il piano industriale aziendale, perché?
Perché l'azienda, purtroppo, continua ad avere dei costi che vanno verso l’insostenibilità. E soprattutto con quell'accordo circa duemila lavoratori di Tim che hanno i requisiti, conquistano in anticipo il diritto ad andare in pensione. In più quell’intesa non scarica sui singoli lavoratori dei costi aggiuntivi; abbiamo ottenuto che Tim integri gli ammortizzatori sociali. Detto ciò, la premessa ricorda quanto siano lontane le posizioni tra noi e l’azienda sul futuro. Continuiamo a non condividere il piano, continuiamo a pensare che lo spezzettamento di Tim sia un problema per l’azienda e per il Paese. L'ultima questione che ci ha in qualche modo costretto a fare i conti con la realtà è la situazione politica: con un governo in prorogazio, che quindi non ha l’autorevolezza per poter discutere di queste cose, è evidente che abbiamo dovuto comprare tempo per avere la possibilità di tornare sul tema del futuro di Tim quando la situazione politica sarà consolidata.
Tra cambi di responsabilità all'interno dell'azienda e non solo e incertezza politico governativa, la rete unica è più vicina o più lontana?
La rete unica è più lontana. Peraltro, non si riesce a comprendere qual è la via. Se continuiamo a ragionare nell’ambito dello schema proposto da Tim, voglio semplicemente sottolineare che la differenza di prezzo che viene attribuita da un lato dai francesi di Vivendi, l'altro da Csp, quindi dai possibili compratori, è nell'ordine dei 10-15 miliardi. È evidente che anche dal punto di vista pratico, siamo in una situazione nella quale non solo non si deciderà perché manca una stabilità del quadro politico, ma anche gli elementi più concreti segnano una distanza tale che non credo sia colmabile con qualche chiacchierata. È evidente che c'è un problema grande come una casa, che è l'assetto del mercato delle Tlc italiano. Il punto è che noi abbiamo un mercato inefficiente che, da un lato comprime lavoro salari e diritti, e dall'altro ritarda gli investimenti Questo ritardo viene pagato dai lavoratori nel settore e dall'intero Paese. Un ritardo tecnologico e di sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione che è un delitto. Dovremmo esattamente fare il contrario. E il piano Tim, anziché fare i conti con questa realtà, cerca dal punto di vista finanziario la sopravvivenza. Questa è la critica di fondo che facciamo e continuiamo a fare.
Lo dicevi, per lo sviluppo del Paese la digitalizzazione è assolutamente fondamentale, riguarda la pubblica amministrazione, riguarda le imprese, riguarda i singoli cittadini e cittadine. Anche questa rischia di subire un rallentamento? E le risorse a disposizione del Pnrr che stentano a essere messe a terra, che fine faranno?
Noi tutti ci auguriamo, ovviamente, che vengano utilizzate appieno anche perché abbiamo un ritardo strutturale da recuperare con il resto d'Europa. Effettivamente, nella situazione attuale, alla tempesta che sta attraversando il Tim si aggiunge anche il fatto che i programmi di Open Fiber, sono in grave ritardo. È evidente, torniamo da capo; quello che dovrebbe essere chiaro a tutti è che l'attuale assetto del settore non permette quelle velocità di investimenti necessarie per dare una spinta allo sviluppo. È inutile girarci attorno: o si cambia questo assetto, a partire dal piano di Tim, o sarà molto difficile farcela. Peraltro, voglio ricordare che tre anni fa riproponemmo unitariamente soluzioni che avrebbero evitato la distruzione di Tim e spazzato via la falsa concorrenza di Open Fiber. Purtroppo si sono persi tre anni e oggi paghiamo il prezzo di questo ritardo e di quelli accumulati negli anni precedenti. Manca, ed è necessaria, una politica industriale. Il mercato non è in grado di allocare le risorse laddove servono. Siccome, comunque, dall'altra parte si sono avviate delle decisioni, la più importante delle quali è la cosiddetta digitalizzazione della pubblica amministrazione, questo significa anche un'altra cosa. Se per colloquiare con la pubblica amministrazione il cittadino avrà bisogno di utilizzare gli strumenti della comunicazione digitale, a quel punto la qualità della sua connessione diventa un diritto di cittadinanza. Quindi c'è un salto di qualità anche da questo punto di vista al quale non corrisponde, ripeto, un assetto industriale che sia in grado di realizzarlo.
Voltiamo pagina. Il caro energia che è sotto gli occhi di tutti si abbatte, si è abbattuto e continua ad abbattersi violento su tutto il settore industriale della filiera della carta. Che autunno prevedi?
E non sono sulla filiera della carta. Direi che l'aspetto più preoccupante dell’inflazione che è attorno all’8%, ma per i consumi delle fasce popolari e già attorno al 10 -11%. Beh, questo significa banalmente che nell'arco di un anno uno stipendio è stato mangiato dall’inflazione, c'è un problema evidente. C’è una emergenza in più. Nel corso degli ultimi due anni abbiamo rinnovato praticamente tutti i contratti, ma li abbiamo chiusi in una fase in cui l’inflazione era tra 1 e 2% e quindi quello che pensavamo essere un buon risultato per la tutela del potere di acquisto di lavoratori e lavoratrici oggi viene rimesso in discussione. Esiste una perdita reale di potere di acquisto da parte delle famiglie: questa fatto, da un lato, pone gravissimi problemi ai lavoratori, ma dall’altro produce un effetto economico generale. Calano i consumi e caleranno ancora di più, e già questo può bastare per innescare una crisi e una recessione che a sua volta mangia poi lavoro e ricchezza.
Le turbolenze politiche si riflettono anche sulla più grande industria culturale, chissà se lo è ancora, ma certamente quella che per molto tempo è stata la più grande industria culturale del Paese, cioè la Rai. Un bilancio di questa stagione, Solari, soprattutto dal punto di vista di un sindacato che deve tutelare i lavoratori e le lavoratrici di quell'azienda, al netto di un contratto di servizio che sembra uno sconosciuto.
Ci sono due elementi. Il primo è una crisi di vocazione delle vecchie aziende radiotelevisive a livello continentale, sono ancora calibrate su un'idea di monopolio che non c'è più da decenni ormai. In più c'è un impatto anche qui, della tecnologia che cambia sostanzialmente le cose. Noi stiamo andando senza dirlo verso la Tv via cavo, che poi è la Tv via fibra e quindi interattiva nella quale i singoli si fanno il palinsesto. Insomma, sta cambiando il modo di fruire anche il prodotto radiotelevisivo. Le vecchie aziende del monopolio sono molto impacciate da questo punto di vista, ed è un primo grande problema. Il secondo grande problema è quello che riguarda le risorse. Perché un'azienda come Rai, che ha una quota sensibile di risorse che dipende dagli abbonamenti, viene sottoposta continuamente a scossoni determinati dall’incertezza: canone in bolletta oppure no, non tutto versato all’azienda, ecc. Insomma, Rai non è in grado di sapere in anticipo quanti soldi ha da spendere, cioè non è in grado di fare correttamente una programmazione industriale. Questo provoca un ulteriore problema rispetto a quello strutturale che riguarda appunto i cambiamenti che già sono avvenuti dal punto di vista proprio del mercato. La risultante di queste cose è un'azienda che arranca, che resta al centro del dibattito più per le divisioni politiche e le interferenze della politica che non per la capacità di essere innovativa. È un problema serio perché alla fine a pagare lo scotto di tutto questo sono gli uomini e le donne che ci lavorano. Oltre, ovviamente, a non avere quel ruolo propulsivo dal punto di vista culturale che un'azienda nazionale come quella dovrebbe avere. Quindi, come dire, è una sorta di fase di ripiegamento nell'azienda in sé stessa, che prova a risolvere i propri problemi ma che è più volta alla sopravvivenza che non l'innovazione.
Concludiamo questa nostra chiacchierata con una parziale buona notizia, l'approvazione da parte del Parlamento della legge delega sullo spettacolo. Se n'è parlato forse troppo poco, ma quella legge delega riguarda il destino di migliaia di lavoratori e di lavoratrici ed il merito di quella approvazione è anche di Slc.
Abbiamo scoperto con la pandemia quanto in realtà sia esteso e sconosciuto questo settore, anche perché largamente basato sul lavoro autonomo. Il lavoro dipendente nel settore quota circa il 10 15%. Il punto di partenza della fase attuale è proprio la pandemia, il primo problema che avemmo all'epoca, sia noi che il governo, fu quello di non sapere esattamente quale fosse la platea cui rivolgere indennizzi rispetto a quello che stava avvenendo. E allora come sindacato scegliemmo una strategia basata sulla cultura delle regole. Da un lato ci siamo adoperati persino a fare proposte concrete emendative di testi, abbiamo proposto interi articoli di legge per arrivare – appunto – alla definizione di una legge quadro che definisse anche le figure giuridiche di chi fa questo lavoro, perché neppure una figura giuridica era prevista la prima della di questa fase. Quindi, da un lato c'è la legge che in qualche modo sistema e mette a posto il funzionamento del settore; l’altro corno è la contrattazione. Stiamo, con fatica, provando a rinnovare un contratto fermo da molti anni che riguarda l'intero settore. Siamo in dirittura d'arrivo, nel senso che abbiamo determinato unitariamente, discutendo con i lavoratori del settore oltre che con le nostre controparti, delle piattaforme rivendicative. Alla ripresa a settembre partirà anche questo secondo corno. Quindi, in autunno avremo da una parte la fase attuativa della legge quadro, e dall’altra il rinnovo del contratto. È esattamente quello che avevamo scelto di fare nel momento in cui questo settore ha impattato violentemente con la crisi, figlia della pandemia. Abbiamo provato, vediamo se ci riusciremo, a usare quella disgrazia per mettere finalmente mano a questo settore, provando dargli qualche regola che ovviamente dovrebbe aiutare lo sviluppo. Non siamo ancora arrivati in fondo, siamo nel mezzo di questo cammino. La direzione è giusta, qualche tassello è andato a posto ed è giusto valorizzare il lavoro che è stato fatto.