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Due dei maggiori insediamenti rurali di braccianti della Piana di Gioia Tauro sono diventati zona rossa. L’emergenza sanitaria è entrata di prepotenza nel campo container di Rosarno, con decine di migranti risultati positivi al covid. E alle difficoltà con cui dovevano confrontarsi vivendo lì dentro, s’è aggiunto questo nuovo stato, che aumenta ancora di più le distanze e rende difficile la sopravvivenza stessa. Qualche giorno dopo, anche la tendopoli dell’area industriale di San Ferdinando è diventata zona rossa.
Non avevo mai pensato di dover fare sindacato in questo modo. Prima del lockdown, sono entrata nel campo container di Rosarno. All’inizio c’è stata la vestizione: la tuta, i calzari, due paia di guanti, la mascherina e una visiera per coprire gli occhi. Nulla del mio corpo doveva essere esposto al contagio. Ero consapevole di essere molto vicina a quel virus che sta mietendo troppe vittime, e che ha messo in ginocchio il mondo intero. È stata un’esperienza forte, molto forte. Stavo entrando in un luogo che conoscevo bene, in cui faccio sindacato e mediazione culturale da anni. Ma stavolta non era lo stesso. Ho sempre vissuto questi luoghi con estrema naturalezza, senza dovermi preoccupare delle distanze, del contatto fisico. Per me è sempre stato come entrare in Camera del lavoro, o addirittura dentro casa mia. Stavolta però non poteva essere così. Gli ospiti, che mi conoscono da tempo, non sapevano chi fossi. Ero coperta da una tuta bianca, con la mascherina, la visiera. Ero un’estranea.
E così, accanto alla mia paura, ho sentito anche la loro. Sebbene fossimo vicini, li ho sentiti lontani. E allora ho vissuto sulla mia pelle il distanziamento sociale. Perché non sono riuscita a regalargli da subito un sorriso, una pacca sulla spalla, a rinnovare insomma un rapporto di fiducia costruito pian piano, nel tempo. Tutti strumenti essenziali per chi fa sindacato. Dopo un po’, i braccianti hanno scrutato bene i miei occhi e hanno sentito la mia voce. E tutto è tornato quasi come prima. Per quanto possibile.
Da quel momento, infatti, allo sgomento per quanto stavano vivendo, si sono aggiunte le richieste più disparate: cibo, ricariche del telefono per rincuorare le famiglie lontane, sigarette e ciò che normalmente erano abituati a procurarsi da soli prima della quarantena. La loro preoccupazione maggiore, però, era ed è tuttora legata al lavoro. Chi è in possesso di un contratto regolare teme di perderlo. Chi il lavoro è costretto a cercarlo quotidianamente senza tutele è invece angosciato dal non poter uscire, dal rimanere isolato e senza soldi, da non avere più la possibilità di aiutare se stesso e i propri cari.
Spiegargli la complessità del rischio e la portata dell’epidemia, provare a rimuovere alcuni ostacoli culturali e le tante incomprensioni che si sono create è stato davvero molto difficile. Così come difficile è stato chiarire il concetto di "asintomaticità". Perché per loro è davvero impossibile che un tampone positivo senza sintomi possa paralizzare in questo modo le loro vite. Vite sospese in un limbo da cui temono di non poter uscire.
Anche per questo motivo dobbiamo continuare a fare il nostro mestiere. L’emergenza ha fin da subito imposto un cambiamento radicale delle nostre abitudini. La riduzione degli spazi di socialità e l’aumento della distanza fisica tra le persone ci deve però spingere a intensificare l’utilizzo di qualsiasi mezzo o strumento per non lasciare solo nessuno, per continuare a garantire i servizi essenziali. In questo contesto, dare informazioni corrette a tutti è la prima arma per combattere l’epidemia. La conoscenza sconfigge qualsiasi minaccia. E per questo non ci siamo mai fermati, e abbiamo continuato a garantire, nel pieno rispetto delle norme, la nostra presenza tra i più deboli, tra i più vulnerabili.
Per contrastare il disorientamento e limitare i disagi siamo stati costretti a riorganizzare il nostro modo di fare sindacato, il nostro presidio sul territorio, con l’obiettivo di mantenere vivo un rapporto costruito negli anni. In questi mesi le disuguaglianze e le fragilità sono aumentate, ma noi c’eravamo prima e continueremo a esserci. Continueremo, insomma, a fare sindacato. Anche se siamo costretti a farlo con la mascherina e la visiera, e coperti con una tuta bianca da capo a piedi.
Celeste Logiacco è segretaria generale della Cgil Piana di Gioia Tauro