Buone pratiche. Di quelle che cambiano la storia della vita delle persone. Le persone più deboli, fragili, indifese. Le famiglie che non riescono a fuggire tutte insieme dalla guerra. Si dividono. In situazioni che noi non potremmo neanche immaginare e, sicuramente, non potremmo sopportare. Figlie e figli minorenni o poco più che ragazzi che vanno altrove, in un altrove lontanissimo, lasciandosi indietro, nei teatri di guerra, violenza, privazione, povertà, discriminazione, genitori con cui è quasi impossibile comunicare, scambiarsi notizie, sapere se sono ancora vivi. Storie che noi riconosciamo sepolte nel nostro passato, nei racconti del tempo di guerra dei nostri nonni. E che invece una parte di mondo vive ancora così, ancora oggi. Anche di questo si occupa l'Inca Cgil, tentando faticosamente di favorire i ricongiungimenti familiari persino in assenza di corridoi umanitari.
"Per questo - ha spiegato Valeria De Amorim Pio, Responsabile Dipartimento Immigrazione e Cittadinanza dell'Inca Cgil nazionale - è importante la creazione di reti allo scopo di tutelare le persone che fuggono dalle guerre. Ed è grazie all'impegno di tutti gli attori che siamo riusciti a far emergere una rete di sostegno che è diventata una prassi strutturata per assistere le persone in questa situazione di emergenza. Una rete costituita dall'Inca, dalla Cgil, dal Centro di accoglienza e dall'Arci, formatasi a La Spezia. Grazie a questa esperienza abbiamo potuto svolgere un ruolo fondamentale per proteggere e aiutare i cittadini afghani. Tramite assistenza, supporto legale ed economico, informazioni specialistiche, con la cooperazione di tutti i soggetti, Inca, Cgil e Arci hanno supplito alla mancanza di un corridoio umanitario".
La storia
di Giada Zappelli, Ufficio immigrazione Inca Cgil
Era maggio del 2022 quando Laila* e Khadija* si sono rivolte all'ufficio immigrazione dell’Inca di La Spezia, accompagnate dalle volontarie di una delle cooperative che si occupa di prima accoglienza sul territorio. Laila ha 15 anni e Khadija ne ha 39, è accompagnata da suo figlio Farid* di 9 anni.
Laila è la nipote di Khadija, figlia di sua sorella, sono originarie di una piccola cittadina a nord di Kabul, conquistata dai talebani qualche anno prima. La loro casa viene distrutta e così tutta la famiglia (più di una decina di persone) migrano verso la capitale. Il 15 agosto del 2021, quando si ritrovano tutti insieme all'aeroporto di Kabul per tentare di espatriare, nel momento in cui i talebani hanno conquistato il Paese, solo Khadija con il figlio e la nipote riescono a imbarcarsi e partire, lasciando l’intera famiglia bloccata in aeroporto.
Khadija lascia le altre due figlie e il marito, Laila lascia i genitori, la nonna e i suoi 4 fratelli. Questo renderà il loro arrivo in Italia ancora più traumatico e doloroso.
Tutti e tre quando vengono accompagnati nel nostro ufficio sono già titolari di un permesso di soggiorno per Asilo, e risiedono presso uno degli alloggi predisposti per l’accoglienza dei titolari di protezione internazionale. Quest’alloggio sarà disponibile solo per il primo anno di accoglienza di questa famiglia, che allo scadere del tempo dovrà essere in grado di essere autonoma economicamente.
Secondo la normativa il ricongiungimento di Khadija risulta essere il più semplice, coniuge e figli rientrano nei confini del nucleo familiare, mentre più complesso sarà delineare le norme con il quale realizzare il ricongiungimento di Laila. Laila è minorenne ma è la più grande dei suoi fratelli, il più piccolo, Khalid*, è un minore invalido con paralisi cerebrale, incapace di muoversi e totalmente dipendente dai genitori che lo devono trasportare in braccio per ogni spostamento.
Le problematiche sorgono nel momento dell’inserimento della procedura telematica sul portale del Ministero dell’Interno, per la compilazione dell’istanza di ricongiungimento: la questione della sede di competenza per il rilascio del visto, la quale risulta essere solo l'ambasciata italiana a Kabul, chiusa dalla presa di potere dei talebani con il ritiro dell’intero corpo diplomatico italiano (ed europeo); la procedura impedisce l’inserimento di fratelli e sorelle nell’istanza, in quanto non sono considerati “nucleo familiare” secondo il testo unico per l’immigrazione.
Grazie al supporto costante del dipartimento dell'immigrazione dell’Inca nazionale, che ci ha orientato a istruire la pratica per i fratelli per affidamento minore, inviamo il ricongiungimento di Laila “forzando” la procedura e inserendo i fratelli e le sorelle come “figli” della stessa, atto che sarà motivo di contrasto con lo Sportello Unico per l’Immigrazione della prefettura territoriale.
Infatti, ai sensi dell'articolo 29 del testo unico sull'immigrazione, il figlio affidato è equiparato ai figli naturali o legittimi. I minori in questione sono stati affidati alla sorella più grande, residente e titolare di permesso di soggiorno in Italia; in effetti, i genitori erano momentaneamente impossibilitati a prendersi cura dei minori, per di più in un Paese in cui agli stessi non potevano essere garantiti l'accesso ai diritti e ai beni fondamentali.
La prassi e la giurisprudenza che vede la possibilità di indicare i fratelli come figli, solitamente a seguito di riconoscimento di affido da parte dell'autorità estera competente, sarà scenario totalmente irrealizzabile per il caso della famiglia di Laila (ancora minorenne) che nel frattempo stava scappando da Kabul e cercando di raggiungere con ogni espediente il Paese più vicino dove fosse presente un'ambasciata italiana, in questo caso l’Iran.
La difficoltà economica della famiglia e la grave infermità di Khalid, oltre all’avanzata età della nonna di Laila, rendono urgente il rilascio dei nullaosta. Per questo è stato fondamentale l’apporto dato dalla segreteria della Camera del Lavoro di La Spezia per il ruolo politico svolto nella mediazione con il dirigente dell’area immigrazione della Prefettura, che fin da subito non ha mostrato flessibilità nel recepimento della pratica. In questa fase è stato importante il supporto legale degli avvocati dell’Inca nazionale, per definire quali competenze spetta al SUI, lo sportello unico per l'immigrazione, e quali agli organi consolari.
Nel frattempo le famiglie di Laila e di Khadija hanno raggiunto l'Iran, paese non ospitale per i rifugiati dall'Afghanistan, per il costo della vita e la corruzione di molti apparati. Il soggiorno per loro diventa difficile e pericoloso (da lì a poco sarebbero cominciati i primi moti di piazza a Teheran).
Il SUI nonostante le rimostranze rilascia il nullaosta di tutti i familiari, portando quindi il nostro lavoro a indirizzarsi nel trovare contatti con l'ambasciata italiana di Teheran, e sempre tramite il dipartimento immigrazione dell’inca nazionale abbiamo raggiunto direttamente l’ufficio visti di Teheran, anche tramite il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
È in questo frangente che ci viene inviato il contatto di Gaia, operatrice socio-legale per Arci area migrazione, che durante il periodo di attesa del rilascio dei visti è stato essenziale per coordinare le famiglie nella ricerca dei documenti necessari per il soggiorno e per l’uscita dal paese, oltre a inserire entrambe le famiglie nel progetto UNHCR Miles4Migrants per il pagamento dei biglietti aerei per l’ingresso in Europa.
È grazie a questa rete che con il rilascio dei visti da parte dell’ambasciata italiana, le famiglie sono potute partire nonostante non avessero più disponibilità economica, tenendo anche conto delle precarie condizioni di salute di Khalid.
Le difficoltà non si sono concluse con l’arrivo in Italia, che ha visto le famiglie riunirsi dopo più di un anno di lontananza, poiché la ricerca di un alloggio idoneo per i due numerosi nuclei ha reso difficile il soggiorno nell’attesa del rilascio dei permessi di soggiorno. In questa occasione la Prefettura non ha applicato nessuna misura eccezionale rispetto a un “normale” ricongiungimento familiare, rendendo difficile la stabilità delle famiglie sul territorio.
In questa fase la Camera del Lavoro ha provato a essere mediatrice tra i comuni della provincia che avessero disponibilità di alloggi idonei all’accoglienza, con Prefettura e cooperative con mandato per la gestione dell’accoglienza.
A mio parere, la disfunzione cronica del sistema di accoglienza ha portato la famiglia ad allontanarsi dal territorio italiano e chiedere asilo in un altro paese europeo, ma è dato evidente che il lavoro coordinato di una rete di supporto, la messa in pratica di solidarietà e competenza ha permesso che questo ricongiungimento si realizzasse (nonostante l’epilogo). Penso sia buona pratica consolidare la rete, proprio di fronte alla mancanza dell'istituzione di canali umanitari e alla de-responsabilizzazione dello stato in tema di accoglienza e integrazione.
Giada Zappelli, Ufficio immigrazione Inca Cgil