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Il 6 marzo 2019, a San Ferdinando ci fu un gran trambusto. Nella Piana si riversarono sciami di giornalisti delle tv e della carta stampata nazionale. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa delimitavano il perimetro, cercando di tenere a bada microfoni, telecamere e migranti sfrattati. Intanto le ruspe entravano in azione per fare a pezzi le baracche dei braccianti. Lo sgombero, insomma, fece grande clamore. Anche se la raccolta a Gioia Tauro e nei dintorni era già finita da un pezzo, e la maggior parte degli abitanti se n’era già andata, l’allora ministro Salvini twittò: “Dopo anni di chiacchiere degli altri, noi passiamo dalle parole ai fatti”.
Ancora adesso le macerie di lamiera e stracci sono qui, a un tiro di schioppo dal grande porto. Sono i resti di quello che è stato il più grande insediamento informale di migranti in Europa, tonnellate di rifiuti speciali in attesa di una soluzione definitiva. Proprio come i braccianti della Piana. Allora molti degli sfrattati finirono nella cosiddetta ‘Nuova tendopoli’, una struttura tirata su nell’agosto 2017 come soluzione temporanea, e nel frattempo cresciuta a vista d’occhio. Da qualche settimana le ruspe sono tornate in azione, stavolta proprio tra le tende blu del ministero. Si sta tentando il “superamento di questa esperienza”, anche se di poliziotti in giro ce ne sono molto pochi, e di giornalisti nemmeno l’ombra. Qualcosa, nel frattempo, è evidentemente cambiato. Non solo il ministro dell’Interno.
“Quella che sta prendendo piede è un'operazione molto diversa da quella che venne messa in atto allora - ci racconta Celeste Logiacco, segretaria generale della Cgil della Piana -. In quel caso fu un’azione di forza, fortemente politicizzata e mediatizzata dalla Lega e da Salvini. Finito lo sgombero, però, non venne pronunciata una sola parola su cosa sarebbe successo dopo, su dove sarebbero finiti i braccianti, sui diritti di questi lavoratori, sul loro sfruttamento. Questa volta, invece, si sta mettendo in atto uno smembramento progressivo, basato sul dialogo con i residenti, sulla mediazione con le forze di polizia e sulla programmazione. Senza troppi clamori. Ci stiamo lavorando da mesi, con la Questura, i sindaci e le associazioni del territorio, cercando di trovare insieme soluzioni abitative dignitose per tutti”. Lo sgombero ha portato finora all'abbattimento di 10 tende e alla rimozione di 7 container, in un periodo in cui le presenze nell'insediamento erano già notevolmente diminuite. Molti migranti s’erano infatti già spostati in Puglia, in Campania, nel Lazio o in Piemonte per seguire la stagione della raccolta. L’obiettivo ora è trovare un posto per tutti quelli che sono rimasti, puntando all’accoglienza diffusa.
Guardare oltre la tendopoli
Lo smantellamento s’è reso necessario, visto il crescente stato di degrado in cui ormai si viveva tra le tende di San Ferdinando. Una situazione esplosiva, resa ancora più grave dall’emergenza sanitaria in corso, ci sono stati anche momenti di tensione. A giugno il sindaco del paese Andrea Tripodi ha quindi portato la questione in Prefettura, chiedendone la chiusura. “La tendopoli ormai sopravviveva all’emergenza - spiega - e andava fisiologicamente degradandosi. Non era più un luogo di crescita di consapevolezza, ma un ricettacolo di risentimento, un grumo di frustrazione. In breve, sono venute meno le ragioni sociali della sua esistenza. Quel luogo è ormai ridotto solo a uno spazio di contenimento di tensioni sociali e di un rischio sanitario pronto ad esplodere da un momento all’altro”. Il comune aveva allora censito 280 presenti, di cui 46 abusivi, distribuiti in 76 tende “gravemente ammalorate” e 5 container “irrimediabilmente degradati”. Le condizioni igieniche erano “estremamente critiche”, in presenza di “parassiti e di diversi animali”. Secondo le previsioni del sindaco, visti gli “allontanamenti spontanei”, i migranti di cui effettivamente farsi carico una volta ultimato lo smantellamento sarebbero stati “presumibilmente 133”. Numeri che oggi si avvicinano molto alla verità. Il 15 agosto scadrà l’affidamento della tendopoli da parte del Comune di San Ferdinando, il sindaco spera di “non essere costretto a doverne fare un altro” e punta alla “demolizione completa”.
“Nello sgombero della vecchia baraccopoli non c’era nessun un progetto, alcuna prospettiva futura - racconta Vincenzo Alampi responsabile della Caritas Oppido Palmi, che per diverso tempo ha gestito la tendopoli per conto del comune -. Oggi stiamo invece cercando di guardare oltre, attraverso il dialogo con gli ospiti, che sono i primi a desiderare una situazione abitativa diversa e più dignitosa. L’unica soluzione per loro è l’accoglienza diffusa, che si può fare solo se si mettono in campo tutte le forze di questo territorio. Sarebbe un bene per tutti. Anche perché ogni paese della Piana ha bisogno della manodopera dei braccianti agricoli e degli operai edili, e ci sono moltissime case sfitte. Da mesi stiamo portando avanti questo progetto, ma abbiamo bisogno di sostegno dalle istituzioni”.
“Per quanto il superamento della tendopoli e degli altri insediamenti informali sia necessario, vanno comunque garantite delle soluzioni socio-abitative alternative - spiega Mauro Destefano, operatore Emergency di Polistena -, anche per favorire i percorsi di cura dei nostri pazienti. Spesso la salute è legata alla condizione sociale dei migranti, e questo significa avere un lavoro e dei documenti in regola. Auspichiamo che l’instaurarsi di relazioni proficue tra i vari soggetti associativi e istituzionali del territorio possa portare a questi risultati. A maggior ragione in una situazione di emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo”
La ricerca di una soluzione “partecipata” per l’emergenza abitativa di San Ferdinando è condivisa anche dalla Questura. “Il dialogo con la Cgil della Piana ha consentito di traghettare i cittadini extracomunitari dalla vecchia baraccopoli verso la nuova tendopoli, che ha garantito agli occupanti sino ad oggi condizioni igieniche e di sicurezza enormemente maggiori, e la possibilità di poter gestire il loro progressivo reinserimento in contesti abitativi ordinari”, afferma il questore di Reggio Calabria Maurizio Vallone. “Ed è proprio questo l’obbiettivo che oggi ci si pone”, il “superamento della tendopoli e la ricollocazione dei migranti in abitazioni condivise, con il supporto economico della Regione Calabria”. Un passaggio decisivo, a maggior ragione in un territorio difficile come quello della Piana di Gioia Tauro, “tristemente noto perché per anni è stato sottoposto al rigido controllo della criminalità organizzata di stampo mafioso, e che per tale ragione vive tuttora un grave stato di sottosviluppo economico e spesso di degrado sociale”.
Per la Questura risulta quindi “importantissimo mantenere uno stretto rapporto con tutte le componenti sane della società civile, promossa dalla Prefettura di Reggio Calabria , e con quelle organizzazioni sindacali che, negli anni, hanno dimostrato di operare lontane dal condizionamento mafioso, in profondità nel tessuto sociale, anche in condizioni di estrema difficoltà”. La questione abitativa, d’altronde, in questo territorio è strettamente annodata con la battaglia per la legalità: “Dobbiamo assolutamente insistere nell’attività che stiamo svolgendo da oltre due anni contro il lavoro nero e lo sfruttamento della mano d’opera straniera – continua il Questore -. Dobbiamo continuare con fermezza su tale strada” e per questo “risulterà fondamentale l’apporto delle organizzazioni sindacali che con la loro presenza sul territorio possono costituire una valida rete di informazioni e di denunce contro ogni forma di sfruttamento”.
Gli ospiti della tendopoli di San Ferdinando e dell’intera Piana, fa poi sapere la vice questore aggiunto di Reggio Calabria e responsabile dell’ufficio immigrazione Concetta Gangemi, “sono in larga parte richiedenti protezione internazionale, con istanze incardinate presso le commissioni territoriali di tutta Italia”. Dal 2016 per i migranti della Piana, continua Gangemi, la Questura “ha emesso 2293 permessi di soggiorno per richiesta di protezione internazionale, 55 per asilo politico, 455 per protezione sussidiaria, 1665 per (ex) motivi umanitari, e 758 per casi o protezione speciali”. Poi conclude: “Gran parte della popolazione straniera ha comuqnue trovato una dimensione di inserimento lavorativo e dunque sociale”, mentre “i richiedenti protezione internazionale danno il loro prezioso apporto per lo più nel settore agricolo”.
Un primo passo
Il disinnesco di quella bomba sociale e sanitaria che era diventata la nuova tendopoli, quindi, appare solo come il primo passo verso un progetto di inclusione che non sarà facile raggiungere da queste parti. “Il dialogo tra istituzioni, forze di sicurezza, terzo settore e sindacato è fondamentale per trovare una soluzione per i braccianti di San Ferdinando - continua Vincenzo Alampi -, senza però dimenticare che nella Piana ci sono almeno altri 60 o 70 insediamenti informali, in vecchie baracche o casolari abbandonati riadattati alla meglio, dove vivono non meno di altri 1.000 migranti”. “É chiaro – afferma ancora Celeste Logiacco – che le relazioni tra le forze sociali e istituzionali sono indispensabili per programmare un nuovo modello di accoglienza in un territorio come questo, ma non bastano. Da tempo chiediamo soluzioni di integrazione alternative e un’accoglienza diffusa attraverso politiche di promozione e sostegno socio-abitativo. Servono risposte concrete, serve sicurezza e dignità. Il comune di San Ferdinando e la Piana non possono essere lasciati soli”.
Per portare a casa un risultato, insomma, è indispensabile il sostegno, economico e politico, delle istituzioni. Ma come fa notare il sindaco Tripodi, “abbiamo di fronte la sordità completa del Governo e della Regione, che non hanno nemmeno un approccio culturale a questo problema”. Per questo “oggi ci troviamo senza misure, e con sentimenti razzisti e xenofobi diffusi che non aiutano a capire la profondità del fenomeno migratorio”. Non bastano, quindi, i provvedimenti tampone adottati finora, o magari “semplici finanziamenti per aiutare i migranti a pagare un affitto”. Tutte misure che rischiano di diventare “semplici atti caritatevoli”. C’è bisogno, conclude, “di una pianificazione seria del territorio, che ponga al centro il lavoro di qualità per tutti. Perché senza lavoro non c’è nessuna inclusione possibile”.