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La Lombardia, è purtroppo cosa nota, da tempo ha provveduto a equiparare sanità pubblica e privata spostando risorse pubbliche verso quest’ultima e anticipando così quello che il governo Meloni sta cercando di fare a livello nazionale. Non solo, già da tempo sta attuando una politica che da un lato riduce i consultori pubblici, e dall’altro facilita – forse incentiva – la nascita di quelli privati. Anche in questo caso anticipando quel che sta succedendo a livello nazionale. Da tempo la Cgil regionale contrasta il chiaro intento di limitare la libera scelta delle donne e la volontà di rendere inattuata e inattuabile la legge 194.
Ora la preoccupazione aumenta visto che il governo ha approvato una norma che autorizza l’ingresso delle associazioni anti abortiste nei consultori pubblici. Alessandro Pagano, segretario generale della Cgil Lombardia, e Enrico Vizza, segretario generale della Uil regionale, hanno preso carta e penna e inviato una missiva preoccupata al presidente della Regione Fontana.
La motivazione è chiara. Dice infatti Pagano: “Appena il Parlamento ha approvato la norma che apre le porte dei consultori agli antiabortisti abbiamo voluto mettere le mani avanti e ricordare al presidente Fontana che il supporto e il sostegno alla maternità non deve essere confuso con l’interruzione volontaria di gravidanza. Non solo, sappiamo bene che le associazioni antiabortiste esercitano pressioni sulle donne che decidono di abortire e che in alcuni casi arrivano fino a proporre pratiche assai discutibili come l’ascolto del battito cardiaco del feto. La 194 va attuata non snaturata”.
I consultori in Lombardia
La legge prevede che operi un consultorio ogni 20mila abitanti. Queste strutture territoriali – è bene ricordarlo – si occupano della salute delle donne dalla pubertà fino oltre la menopausa e si occupano – o dovrebbero farlo – anche della salute dei bimbi e delle bimbe. Non a caso, infatti, la denominazione corretta è consultori materno infantili. Ma in Lombardia questi numeri non vengono rispettati. In Regione le strutture mappate nel 2023 corrispondono complessivamente a 259 fra pubbliche e private (un consultorio ogni 38.319 abitanti). Ma se consideriamo solo i consultori pubblici, che sono 170, il rapporto diventa un consultorio ogni 58.533 abitanti.
Il problema è serio
La questione dei numeri, dunque, è dirimente ed è fuori legge. Anche se si considera il numero complessivo, sommando strutture pubbliche e i private, siamo ben oltre il rapporto fissato dalle norme. Se poi si considerano solo quelli pubblici la situazione è praticamente drammatica. “Da anni – aggiunge il dirigente sindacale – viene concesso ai consultori privati di natura confessionale di non effettuare nulla di ciò che indica la legge 194 che, ricordiamo, non si occupa solo di interruzione volontaria della gravidanza, ma anche di contraccezione e prevenzione. In barba all’equiparazione pubblico/privato, pari diritti e pari doveri, la Regione concede un’obiezione di struttura. Caso unico in Italia. Ed è per questo che l’autorizzazione degli anti abortisti nei consultori pubblici da noi è più preoccupante che altrove”.
L’obiezione di coscienza, pratica diffusissima
Se al terzo di consultori confessionali che hanno “obiettato”, e quindi non applicano la 194, aggiungiamo gli unici per i quali l’obiezione è prevista per legge cioè i medici, scopriamo che i medici obiettori sono il 60% del personale sanitario in servizio e che in alcune strutture ospedaliere si arriva al 100%. Come è immaginabile vista la situazione, in Lombardia è praticamente impossibile accedere alla Ivg farmacologica assai meno costosa per il Ssn e assai meno gravosa sia dal punto di vista fisico che psicologico per le donne. Ma si sa la vecchia affermazione “partorirai nel dolore” di biblica memoria vale ancora di più per l’interruzione di gravidanza che, secondo gli antiabortisti, deve essere dolorosa e faticosa, e anche un po’ punitiva perché ritenuta una colpa.
La mobilitazione parte da lontano
Non solo da tempo la Cgil è al fianco delle donne che rivendicano la piena applicazione della legge 194, ma si batte per il rispetto delle norme. Ancora Pagano: “Sulla base del mancato rapporto numerico e sulla facoltà concessa ai consultori di natura confessionale nel mese di agosto del 2022 abbiamo depositato il ricorso al Tar. A distanza di un anno e mezzo, il 21 marzo 2024 si è tenuta l’udienza e il 3 aprile 2024 è stata pubblicata la sentenza con la quale il Tar ha dichiarato inammissibile il nostro ricorso. Abbiamo letto il dispositivo del Tar e dal confronto con il nostro ufficio legale riteniamo che ci siano alcuni vizi e per questo come Cgil Lombardia abbiamo deliberato di procedere con l’impugnazione della sentenza innanzi al Consiglio di Stato, con la piena condivisione di tutte le strutture sindacali lombarde, confederali e di categoria”.
I dubbi sulla sentenza del Tar
Sono almeno due i punti contenuti nel ricorso della Cgil lombarda a cui il dispositivo del Tribunale amministrativo regionale, secondo la Confederazione, non avrebbe dato risposte. Da un lato ha ritenuto la “concessione” offerta ai consultori privati di natura confessionale di non assolvere agli obblighi normativi relativamente alla somministrazione di contraccettivi o all’interruzione volontaria di gravidanza ammissibile semplicemente con la comunicazione all’utenza di non assolvimento di tali funzioni.
“Questo – secondo Pagano – è in contrasto con il principio di uguaglianza di diritti e doveri fra strutture pubbliche e private accreditate indicato dalla normativa nazionale e regionale”. E poi, il Tar – così come la Regione Lombardia ha scritto nella memoria difensiva – sovrappone l’intervento dei così detti "Centri di aiuto alla vita" alle competenze dei consultori famigliari.
L’iniziativa di contrasto non può che continuare
La conclusione del segretario generale della Cgil lombarda è chiara e netta: “Purtroppo la Lombardia ha in qualche modo anticipato la decisione nazionale di prevedere le associazioni antiabortiste nei consultori. In Lombardia esistono da anni i Cav (Centri di aiuto alla Vita). Per questo con la Uil abbiamo inviato la lettera Fontana, chiedendogli che non assuma il provvedimento nazionale. Abbiamo deciso, infine, di coinvolgere le forze politiche di opposizione e le tante associazioni che operano nei territori per organizzare azioni di mobilitazione per contrastare un’ulteriore limitazione alla libertà e all’autodeterminazione delle donne”.