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“È una vergogna”, tuonava papa Francesco. “Non ci sono termini abbastanza forti per indicare anche il nostro sentimento di fronte a questa tragedia”, gli faceva eco l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, mentre l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, si recava a Lampedusa inginocchiandosi davanti alle piccole bare bianche dei bambini chiedendo loro perdono. “Un tappeto di carne umana”, così l’allora sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, descriveva i 368 corpi di donne, uomini e bambini sulla spiaggia.
Il 3 ottobre del 2013 si consumava sull'isola siciliana la grande tragedia dell’immigrazione.
“Quella giornata mi ha segnato per sempre”, ricorderà ancora Nicolini. “La morte è sempre terribile. Anche nei mesi precedenti, anche quando ne moriva solo uno, l’incontro con la morte era già drammatico. Ma la morte di 368 persone è una cosa che ti sconvolge. Il recupero dei corpi è durato giorni, i superstiti del naufragio li abbiamo trattenuti per oltre un mese perché dovevano essere presenti come teste, è stata una lunga fase di dolore, di lutto e d’impotenza. Ad oggi il naufragio del 3 ottobre non è ricordato come il più grande, quello di aprile 2015 è stato più tragico, con oltre il doppio dei morti e dispersi, ma la ‘particolarità’ di quell’episodio è stato il fatto di essere avvenuto a poche centinaia di metri dalla costa. È stato possibile recuperare tutti i corpi da mostrare al mondo, con tutte le 368 bare riunite nell’hangar. La strage ha reso materia i morti che fino a quel momento, nelle stragi precedenti, erano stati coperti dal mare. Sembrava che saremmo giunti a cambiamenti epocali dopo quello scempio, a cambiamenti delle politiche, ma dopo l’iniziale mobilitazione, è arrivato il peggio”.
La tragedia, inimmaginabile fino a pochi secondi prima, divampa in un lampo come il fuoco che avvolge subito il ponte del barcone. I cadaveri vengono deposti sul molo, ormai diventato una camera mortuaria a cielo aperto, e inseriti nei sacchi di plastica con cerniera verdi e blu forniti dalla direzione dell’aeroporto. Sopra ogni sacco viene spillato un numero che servirà alla polizia scientifica per dare un nome ai migranti deceduti.
Dal pontile una staffetta di ambulanze con la sirena accesa precedute dalle gazzelle dei carabinieri porta i corpi nel enorme edificio blu dell'aeroporto che normalmente ospita gli elicotteri della Finanza e del 118.
“Guardate cosa c’è oltre le nostre parole - scriverà su Repubblica Attilio Bolzoni - i nostri articoli, le storie che raccontiamo ogni volta che s’inabissa un barcone. Guardate questi corpi che si abbracciano, in fondo al mare. È tutto quello che resta di loro. Corpi. I corpi abbracciati dei migranti vittime della strage del 3 ottobre in Sicilia. (…) Guardate e poi ripensate alle parole: naufragio, migranti, Mediterraneo. Scivolano così velocemente che neanche ce ne accorgiamo, le ripetiamo o le scriviamo sempre il giorno dopo, un reportage, un titolo, un numero - 120, 285, 366 - che riferisce la portata della "tragedia". È un'altra di quelle parole: tragedia, tragedia del mare. Ci siamo abituati, siamo addestrati a riportare con dovizia di particolari le dinamiche degli affondamenti, ogni dettaglio curioso, ci siamo specializzati nel ricostruire le vite degli altri che non ci sono più. (…) È diventata la nostra normalità, siamo noi l’Italia che ha imparato tutto sui migranti che affogano e su come affogano, sappiamo da dove vengono e dove vogliono arrivare, quali sono i loro sogni, cosa hanno lasciato. Sappiamo tutto di loro. In molti proviamo pietà, alcuni provano o dicono di provare fastidio. In molti soffriamo, altri s’incazzano perché sono morti qui, proprio qui da noi, in quell’Italia che non li vorrebbe mai né vivi e né morti. Politicamente corretti e politicamente scorretti, pregiudizi, ideologie, razzismi, stupidità che diventa malvagità. E c'è chi prega, chi dichiara, c'è chi promette e chi minaccia. Ma li avete visti, li avete visti davvero questi corpi? Guardateli da vicino per favore, guardateli e diteci se abbiamo visto bene anche noi, diteci se c’è un uomo che stringe con le sue braccia una donna, se ci sono due neri stesi sulla sabbia - chissà a quale profondità - che sembrano dormire, se c’è un ragazzo a testa in giù e a piedi in su che cerca disperatamente un appiglio per resistere un altro secondo, se c’è una ragazza che non ha volto ma una cintura che luccica anche in fondo al mare. Sembra in posa, come una modella. Una modella morta”.
Diteci se ci sono bambini e bambine con gli occhi chiusi, bambini che non dormono, perché hanno visto troppo, hanno subito troppo, bambini che non si sveglieranno mai più. Oggi commuoviamoci, ricordiamoli, pensiamo a ciascuno e ciascuna di loro, con la consapevolezza, però, che il ricordo da solo non basta. Ma non dimenticare può e deve servire a dare un senso alla strage e contribuire a tessere quel percorso di accoglienza e integrazione di cui l’Italia e l’Europa tutta hanno mai come oggi disperatamente bisogno.
Scriveva lo scorso anno Pietro Bartolo: “C’era una volta un bambino con una maglietta rossa, che ha attraversato il deserto e il Mediterraneo, che ha raggiunto Lampedusa e da lì ha iniziato la sua nuova vita in giro per il mondo. E io per una sera, una sera soltanto, vorrei davvero il lieto fine. Per una sera soltanto, vorrei spazzare via il dolore sordo che da sette anni accompagna la mia vita e quella di chi c’era, di chi ha visto l’orrore della strage del 3 ottobre 2013, a pochi metri dalla costa di Lampedusa, quando persero la vita 368 persone”.
368 persone, 368 nomi, 368 vite. 736 occhi che continueranno a guardarci, specchio dei nostri egoismi e delle nostre paure, delle nostre - di tutti - colpe e dei nostri errori, dei nostri bianco e nero. Bianco come il lenzuolo che copre le coscienze dei colpevoli. Nero, come i loro corpi, come la morte, perché ogni morte è nera. Rosso, come il sangue versato, come la nostra rabbia, la nostra - di tutti - vergogna.