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La proposta originaria per uno Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori risale alle riflessioni elaborate da Giuseppe Di Vittorio nell’ottobre 1952 e presentate al Congresso dei chimici e poi in forma organica al congresso di Napoli della Cgil nel dicembre 1952. L’idea di Di Vittorio era strettamente collegata alla elaborazione e alla realizzazione del piano del lavoro proposto al precedente Congresso di Genova 1949. Un unico filo conduttore legava le due proposte del Segretario generale della Cgil: porre al centro della ricostruzione economica del Paese il ruolo fondamentale del lavoro promuovendo un vasto e organico piano di investimenti pubblici volti al riassorbimento della disoccupazione di massa sia sul versante del coinvolgimento, attivo e responsabile dei lavoratori occupati, in tutti i settori, nella ripresa produttiva nelle fabbriche e negli uffici.
La centralità del lavoro che Di Vittorio aveva imposto a fondamento del patto costituzionale non poteva rimanere una semplice affermazione di democrazia formale e istituzionale. La democrazia sancita dalla Costituzione non era solo il fondamento dello Stato parlamentare garantito dal suffragio universale ma trovava il suo vero fondamento nell’affermazione integrale delle libertà e dei diritti del lavoratore in quanto tale giacché egli era cittadino dello Stato democratico proprio in virtù del suo essere cittadino lavoratore di quello Stato. È da questa premessa che Di Vittorio, nel pieno della bufera reazionaria nei primi anni ’50 e in presenza di una persistente ostilità di una larga parte dei datori di lavoro a collocare la loro legittima attività in questo quadro giuridico e normativo costituzionale, ritiene di dover proporre in primo luogo al mondo economico un patto, chiaro e semplice per introdurre nei luoghi di lavoro principi sottoscritti di tutela della dignità del lavoratore.
È di grande significato che l’enunciato di Di Vittorio comprendeva il ruolo decisivo che il riconoscimento delle libertà e dei diritti del lavoratore poteva dare alla ripresa economica delle aziende, delle campagne, degli uffici, dunque, al pari del Piano del Lavoro concorrere a un diverso e più equilibrato sviluppo economico dell’Italia. Tra le proposte emerse in quegli anni del lungo dopoguerra quella dello Statuto dei diritti del cittadino lavoratore rimane, a mio giudizio, non solo la più organica perché unisce ai diritti e alla libertà le esigenze economiche dello sviluppo, ma anche perché prefigura la modalità di svolgimento ordinato di quel ciclo espansivo fordista che, altrimenti, avrebbe assunto, come poi avverrà, caratteristiche tumultuose e profondamente squilibranti del tessuto sociale, umano e lavorativo del Paese.
Lo schema della produttività e delle human relation di origine cislina, e il duopolio politico economico della Confindustria, al pari del paternalismo autoritario e compassionevole di alcune frange del cosiddetto capitalismo illuminato, per non parlare delle posizioni più dichiaratamente reazionarie e autoritarie di settori del capitalismo agrario e di alcuni monopoli industriali, in realtà risulteranno o inessenziali o occasionali o nel caso peggiore costituiranno un freno alla modernizzazione delle relazioni tra lavoro e capitale quando inizierà la fase del vero decollo economico. Come è noto, nei due decenni successivi, anche il sistema politico e i partiti porranno attenzione a questo tema. Sin dal primo governo di centro sinistra di Aldo Moro, la proposta di un’iniziativa legislativa volta alla tutela del lavoro nelle aziende farà parte dei programmi dei governi di centro sinistra e, attraverso varie fasi e discussioni e con il coinvolgimento di alcuni importanti giuslavoristi in primis Gino Giugni, metteranno a fuoco i punti principali di una legge dello Stato che colmasse giuridicamente il vuoto tra i principi costituzionali e la loro esigibilità da parte dei cittadini lavoratori. Anche le forze di opposizione, il Pci e il Psiup produrranno propri disegni legislativi che, tuttavia, insieme al complesso iter delle elaborazioni governative, non riusciranno a tradursi in veri atti legislativi proprio durante gli anni in cui la società italiana e le relazioni industriali verranno radicalmente sconvolte dal dilagare dello sviluppo guidato dal fordismo. Sarà dunque lasciato al semplice rapporto di forza tra lavoratori, rappresentanze sindacali e datori di lavoro la regolazione del sistema produttivo. Nonostante la maturità delle lotte e delle rivendicazioni dei lavoratori tuttavia i rapporti di forza reali finiranno col configurare un sistema di relazioni fortemente oppressivo, limitativo delle libertà, delle tutele e dei diritti del lavoro. Il solo strumento di straordinaria importanza, a disposizione del sindacato e dei lavoratori per arginare questa impostazione, sarà il contratto collettivo di lavoro sia nella sua dimensione nazionale sia anche, a partire dal 1960, nell’articolazione della contrattazione aziendale.
Si può così affermare sul piano storico che l’unico strumento di regolazione del conflitto sociale e dei rapporti di lavoro sarà costituito in questi anni dall’andamento delle tutele contrattuali mentre la protezione sociale sarà affidata alle incerte evoluzioni e più spesso involuzioni della politica riformatrice del governo. A sua volta l’allargamento dell’occupazione avverrà per quantità, qualità e distribuzione settoriale e geografica seguendo la logica immediata del profitto capitalistico e dell’utilizzo senza controllo delle risorse pubbliche. È in questo quadro storico che matura, a partire dal 1967-68, la consapevolezza nel mondo del lavoro che occorra trasferire la lotta per le libertà e i diritti dei lavoratori dal terreno giuridico parlamentare al terreno della modifica dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro e nella società, utilizzando il vettore contrattuale e la mobilitazione sociale e conflittuale come i soli strumenti efficaci a ripristinare un riequilibrio economico e di potere compatibile con l’ordinamento costituzionale democratico. Quando il ciclo conflittuale sancito dal 1967-68 culminerà nel ’69 nella capillare diffusione delle lotte nelle fabbriche, nelle campagne e negli altri settori produttivi, il sistema politico sarà indotto a prendere atto della necessità di accelerare l’intervento legislativo dello Stato. Non è casuale che il Ministro del lavoro Brodolini compirà l’atto principale e metterà in dirittura di arrivo il progetto dello Statuto dei diritti dei lavoratori dopo il tragico ripetersi di un eccidio di lavoratori agricoli ad Avola e poi a Battipaglia tra la fine del ’68 e la primavera del ’69.
A differenza dei primi anni ’50, tuttavia, la straordinaria pressione unitaria, rivendicativa e conflittuale dei lavoratori si potrà giovare e, insieme, rafforzerà la convergenza unitaria del sindacalismo confederale e federale. A sua volta il vettore contrattuale, aziendale, di gruppo e nazionale conterrà piattaforme quasi sempre unitarie, salariali e normative così radicali da modificare proprio i rapporti di forza nelle aziende e nei luoghi di lavoro, incidendo nella distribuzione del reddito tra lavoro e capitale ma anche nel sistema gerarchico e autoritario di potere e di conduzione del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro da parte della gerarchia direzionale e tecnico amministrativa. Fondamentale sarà poi, per il suo carattere innovativo, la costruzione di nuovi organismi di rappresentanza diretta e democratica dei lavoratori, dotati di ampi poteri propri, ma complessivamente correlati sia nelle rivendicazioni che nelle lotte alle istituzioni sindacali. La resistenza dura e ostinata dell’insieme del padronato industriale e agrario, che si protrasse per l’intero svolgimento delle principali vertenze aziendali e contrattuali di tutti i settori produttivi, sarà progressivamente erosa, durante i primi mesi del ’69 e definitivamente superata entro la fine dell’anno, sull’onda del trauma politico e morale delle bombe stragiste di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre. Il giorno prima, il Senato aveva approvato in prima lettura il disegno di legge concernente lo Statuto dei diritti dei lavoratori. La compattezza e la maturità dei lavoratori, insieme alla forza unitaria delle Confederazioni sindacali, questa volta impedirono il verificarsi di un nuovo “Lodo Giolitti”, quell’accordo sottoscritto dal sindacato con il quale i lavoratori, nel settembre 1920, chiusero l’occupazione delle fabbriche, sulla base dell’impegno del Governo di realizzare la richiesta del controllo operaio e sindacale attraverso una nuova legge, che ovviamente sarà completamente disattesa.
In quel tragico passaggio contrattuale di fine ’69 il Ministro del lavoro Donat Cattin compì il primo dei due più importanti atti politici pro-labour della storia dell’Italia repubblicana. Il Ministro impose alla Confindustria una mediazione che chiudeva il contratto nazionale di lavoro dei meccanici sulla base delle rivendicazioni presentate, concludendo così la durissima stagione dell’autunno caldo e sanzionando le straordinarie conquiste ottenute dal mondo del lavoro e dal sindacato. Non considerando le pesanti rimostranze e la violenta reazione della Confindustria e di buona parte del mondo economico, il Ministro condusse in porto, nei mesi successivi, l’iter legislativo che portò al varo della legge 300 sullo Statuto dei diritti di lavoratori. Fu questo il secondo atto politico significativo pro-labour della classe politica.
Si è molto discusso sul carattere di quella legge tra coloro che l’interpretavano come un accorto espediente per neutralizzare e sterilizzare le spinte più radicali che provenivano dal movimentismo operaio e dal sindacalismo estremista e coloro che vi leggevano un necessario strumento giuridico di sostegno per le lotte dei lavoratori e di riconoscimento del ruolo del sindacato nelle aziende. Se consideriamo che lo Statuto, non solo segna il culmine di un ciclo conflittuale ma che in realtà stabilizza i nuovi rapporti di forza a favore del lavoro e del sindacato e aiuta quindi il permanere della pressione sul sistema delle imprese, che condurrà al secondo grande ciclo contrattuale del ’72, si può sostenere che lo Statuto, nello spirito aggiornato dell’intuizione di Di Vittorio, ha insieme registrato e favorito la modifica della curva autoritaria del fordismo, introducendo nelle relazioni industriali i principi della libertà, dei diritti e della dignità dei lavoratori nonché la legittimità del sindacato, delimitando il ruolo di comando unilaterale della proprietà e del management. Dunque un valido strumento di regolazione delle relazioni di lavoro e dell’organizzazione del sistema produttivo nella fase finale del fordismo.
Lo Statuto, nei decenni successivi, non sarà mai accettato dal mondo economico, che legherà la riaffermazione del proprio ruolo di comando unilaterale quasi esclusivamente sulla compressione di quella frontiera giuridica fissata dai principali articoli dello Statuto. Per i lavoratori e il sindacato molti di quegli articoli, se non proprio il trasferimento della Costituzione nei luoghi di lavoro, rimarranno un presidio e un regolatore del grado di sostenibilità che il sistema economico capitalistico poteva imporre ai lavoratori e alla loro rappresentanza sindacale senza provocare una frattura insanabile tra lavoro e impresa. Una valida condizione giuridica e normativa per accompagnare il superamento del fordismo verso soluzioni positive e competitive per il sistema economico delle imprese e scongiurare quel blocco della riproduzione del ciclo produttivo, ove si fosse continuato da parte dell’élite dirigenti ad escludere o a marginalizzare il lavoro e la sua piena valorizzazione. È ben noto che la strada scelta dal capitalismo italiano ha pericolosamente sfidato questo confine e ha preferito giocare la partita apertasi nel nuovo scenario delle trasformazioni industriali all’interno dei più maturi capitalismi (giapponese, tedesco e statunitense), sul fronte del disimpegno produttivo e della via breve della finanziarizzazione del capitale industriale. In questa fase lo Statuto è stato sottoposto a tensioni e svuotamenti, anche se ha costituito per il lavoratore e il sindacato una frontiera mai abbandonata completamente; più volte è stata riproposta l’esigenza di adeguamento ai nuovi scenari che si andavano producendo nella destrutturazione del sistema industriale e nella composizione della forza lavoro. Tuttavia mai il sindacato e i lavoratori hanno inteso rinunciare ai principi giuridici di salvaguardia delle libertà e dei diritti nei rapporti di lavoro pur quando i rapporti di forza hanno costretto ad aprire varchi sia nelle tutele contrattuali che nel presidio giuridico. Questo percorso, alla luce del passaggio epocale che la crisi pandemica sta imponendo al lavoro e al sistema economico e sociale nel suo insieme, - al punto che è diffusa la convinzione che nulla sarà come prima - si impone una ripresa dell’antico spirito con cui Di Vittorio formulava le ragioni per uno Statuto dei lavoratori.
La revisione e l’aggiornamento dello Statuto, ovviamente, deve tener ferma la rivendicazione e l’allargamento dei diritti e delle tutele del lavoro ma non può ritenere possibile che ciò si ottenga solo con più diritti. Se nulla sarà come prima, e questo appare indubitabile, e se nessun nuovo inizio sarà plausibile senza riaffermare la centralità del lavoro e della sua valorizzazione allora occorre un nuovo patto costituente per il lavoro e per l’impresa, una Costituzione d’impresa, tenendo ben presente, tuttavia, che un nuovo patto presuppone non semplicemente la codificazione di diritti ma la condivisione di poteri formali e certificati per i contraenti del patto.