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Nonostante il Covid, o forse proprio a causa della crisi pandemica, nel 2020 sono continuati gli sbarchi di migranti nel nostro Paese. Lo scorso anno, dati del Viminale alla mano, sono arrivati in Italia oltre 34 mila persone via mare, quasi il triplo rispetto al 2019. Si è così invertita una tendenza in atto dall'approvazione dei cosiddetti “Decreti Minniti” del 2017 e del memorandum Italia-Libia tra l’allora premier Gentiloni e il leader libico al Serraj.
Il virus che ha appestato il mondo, in ogni caso, ha comunque avuto alcuni effetti concreti sul fenomeno migratorio in Italia. O sula sua percezione. Un anno fa, l'alba della crisi vide magicamente scomparire dai media la vulgata dell'”invasione dai migranti”. Lo spauracchio del “clandestino” fu rimpiazzato all'istante dalla paura, ben più concreta, dell'infezione. Poi l'idea del coronavirus come una sorta di "livella" in grado di colpire indiscriminatamente tutti, senza distinzioni di censo o di status sociale, s'è scontrata rovinosamente coi fatti, e con l'aumentare delle disuguaglianze e delle povertà nel nostro Paese. A confermarlo, oggi, c'è uno studio sulle differenze d'impatto della pandemia sui cittadini italiani e stranieri reso noto dall'Istituto superiore di sanità.
Il report non ha avuto molta pubblicità sui media italiani, ma è stato pubblicato più di un mese fa sul numero di febbraio dell'European Journal of Public Health. E contiene le valutazioni dell'Iss circa l'impatto dell’epidemia sugli individui stranieri, inclusi i migranti economici, i viaggiatori di breve durata e i rifugiati. La lente sono i dati del sistema di sorveglianza integrata confermati in laboratorio, e diagnosticati in Italia tra il 20 febbraio e il 19 luglio 2020, cioè all'epoca della prima ondata di covid.
Ebbene, dall’analisi di 213.180 infezioni, che comprendevano ben 15.974 (7,5%) cittadini non italiani, è emerso che i casi degli stranieri sono stati diagnosticati in media due settimane più tardi rispetto a quelli italiani. Un ritardo, che tra l'altro, arrivava addirittura a quattro settimane per i migranti provenienti dai paesi più poveri, quelli con un basso Human development index (Hdi, lo strumento riconosciuto dalle Nazioni unite per misurare lo status di benessere delle nazioni secondo indicatori socio-economici ndr).
L'Istituto superiore di sanità, poi, ci dice che le infezioni tra le persone non italiane “sono state diagnosticate in modo meno tempestivo, quando la malattia era più avanzata e i sintomi più gravi”. Una tesi supportata dai numeri dei ricoveri: gli stranieri hanno mostrato “una maggiore probabilità di essere ricoverati in ospedale” e, una volta ospedalizzati, di finire in terapia intensiva “con differenze più pronunciate in coloro che provengono da Paesi con basso Hdi”.
I migranti, insomma, non si sono ammalati di più, ma in maniera più seria. E hanno rischiato la morte più spesso rispetto agli italiani. Si è infatti osservato “un aumento del pericolo di morte nei pazienti provenienti da Paesi a basso Hdi rispetto a quelli italiani”. In sostanza, l'eventualità di ospedalizzazione, ricovero in terapia intensiva e morte aumentava in maniera considerevole al diminuire della ricchezza del Paese di origine.
L'Istituto prova anche a fornire una spiegazione a questo fenomeno: i migranti hanno avuto diagnosi tardive. “Una diagnosi ritardata nei pazienti stranieri - si legge infatti - potrebbe spiegare la loro maggiore probabilità di presentare condizioni cliniche che richiedono ricovero, sia ordinario che in terapia intensiva, nonché la maggiore probabilità di morte osservata in quelli provenienti da Paesi a basso reddito”.
Il motivo sta nel fatto che molti dei migranti provenienti dai paesi più poveri non avevano documenti in regola, quindi molto spesso non beneficiavano di un medico di base, “il più probabile mediatore per la diagnosi precoce”. Lo status di sans papier, che riguarda soprattutto gli stranieri provenienti da paesi poveri, infatti, non permetteva il più delle volte l'accesso “ai servizi di emergenza e ad alcuni servizi ambulatoriali”, oltre che e ai “servizi aggiuntivi”. Insomma, “barriere, linguistiche, amministrative, legali, culturali e sociali” presenti nel nostro Paese hanno concretamente ostacolato “un rapido accesso ai servizi sanitari, portando probabilmente a una diagnosi ritardata”. Inoltre, nel contesto della pandemia, dice ancora l'Istituto di sanità, “gli stranieri potrebbero aver subito ritardi nella diagnosi per timore di restrizione dell'attività lavorativa per isolamento o quarantena”.
Oggi lo stesso problema si pone coi vaccini. L'Iss infatti ammonisce: “È fondamentale ricordare che garantire e favorire ai cittadini stranieri l'accesso precoce alla diagnosi e al trattamento, così come l’accesso alla vaccinazione” potrebbe “facilitare il controllo della trasmissione”, e “migliorare gli esiti di salute in tutte le persone che vivono nel Paese, indipendentemente dalla nazionalità”. In definitiva, a più di un anno di distanza dall'inizio della pandemia, oggi lo certifica anche l'ente di riferimento per la sanità pubblica in Italia: il Covid non è stata, e di certo non è tuttora, una “livella”.