In Italia, la retribuzione media annua delle donne è pari a 17.300 euro contro una media maschile di 24.500 euro con un differenziale pari a 7.200 euro (dati Inps 2022). Un gap consistente che si riproduce anche sugli assegni pensionistici, più bassi in media del 36%, e che condiziona la vita delle donne durante tutta la sua durata. Analogamente, anche se con variazioni notevoli da un Paese all’altro, nel resto d’Europa dove il gender pay gap in media si attesta intorno al 13%.

Molteplici le ragioni sottese ai divari salariali di genere che l’Unione europea della precedente legislatura ha deciso di contrastare sia dal punto di vista normativo, con l’adozione di una serie di direttive, che attraverso la promozione di progetti dedicati. La Cgil è partner in Mind the Gap, progetto guidato dal sindacato polacco Upzz nel quale sono parti attive anche i sindacati Gwu Malta, Usscg Montenegro, Ugs Nezavisnost Serbia e Sseri Macedonia, nonché Koz Slovacchia, Cartel Alfa Romania, Ces e Epsu.

È nell’ambito di Mind the Gap che oltre cinquanta tra dirigenti e funzionar* di strutture e categorie hanno partecipato alla prima giornata del workshop dedicato appunto all’analisi dei divari di genere nel mondo del lavoro e alla direttiva europea 2023/970 conosciuta anche come Pay transparency.

Tra gli elementi che condizionano maggiormente i gap retributivi spiccano infatti quelli sulla mancata circolazione di informazioni sulle retribuzioni dei colleghi della scrivania accanto che, pur svolgendo lo stesso lavoro, a parità di mansioni e competenze, spesso guadagnano più delle colleghe. Le cause sono da ricercarsi nelle discriminazioni all’ingresso, offerte diverse in base al genere del candidat*, altre nei superminimi che penalizzano le donne e ancora più spesso nell’orario di lavoro: le statistiche dicono che le donne subiscono in gran parte il part time involontario o, quando full time, lavorano meno ore dei maschi perché molto più impegnate nelle attività di cura familiari.

L’Europa della precedente legislatura - con l’attuale non sarebbe davvero possibile-, ha emanato una serie di norme che obbligano le imprese alla trasparenza sulle retribuzioni e sui criteri di progressione professionale, e che vietano anche le clausole di riservatezza, oltre a stabilire che già all’atto dell’assunzione debba esserci chiarezza sui livelli retributivi.

In poche parole, per l’Ue non sovranista, chi si candida per una posizione ha il diritto di conoscere l’offerta economica che viene formulata. La direttiva, che è stata presentata dalla professoressa Laura Calafà, docente di Diritto del lavoro all’Università di Verona e componente della Consulta giuridica della Cgil, prevede il coinvolgimento attivo delle parti sociali e in particolare delle organizzazioni sindacali nelle varie fasi di attuazione. A partire dall’individuazione del “lavoro di pari valore”, grimaldello su cui agire fin davanti alle corti per chiedere l’adeguamento retributivo in caso di gap salariale uomo/donna.

La Pay transparency potrebbe davvero rappresentare una svolta nelle dinamiche discriminatorie nei confronti delle donne sul lavoro. Entro il giugno del 2026 gli Stati membri devono recepirla e qui in Italia c’è il timore che il Governo Meloni voglia bloccarla così come ha fatto con la direttiva su salario minimo.

In attesa di capire se anche stavolta il governo affosserà i diritti delle lavoratrici e delle donne sull’altare della libertà di impresa, la Cgil e i sindacati possono agire la leva della contrattazione di genere, tema che sarà al centro del secondo e ultimo appuntamento del workshop, il prossimo 21 febbraio, a Roma.

Esmeralda Rizzi, Politiche di genere Cgil e componente del Comitato donne Ces