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Il caso più clamoroso è venuto a galla in piena estate. A metà agosto, nell'ex caserma Serena, un enorme centro di accoglienza straordinaria di Treviso, su 281 migranti ospitati, 246 risultarono positivi al coronavirus. Poi, un mese dopo, in un’altra caserma del Trevigiano, a Oderzo (anche questa trasformata in Cas dall’azienda profit Nova facility srl), scoppiò un altro enorme focolaio con 175 ospiti contagiati.
L’altra epidemia
Nell’ultimo mese, però, le cose sono andate anche peggio. Focolai nei centri di accoglienza, formali o informali che siano, si sono accesi con inquietante continuità in tutta Italia. All’inizio di ottobre è scoppiato un cluster nel centro Ninfa Marina ad Amantea, in Calabria, e i 95 positivi sono stati trasferiti su una nave quarantena al largo della Sicilia. Poco dopo è stata deciso l’isolamento per il centro Villaggio Mosè di Agrigento. Alle “Terrazze” di Arcevia, vicino Senigallia, 22 ospiti sono poi risultati positivi, e la stessa cosa accaduta a Terzigno, in provincia di Napoli. La tendopoli e il campo container della Piana di Gioia Tauro sono diventati zone rosse la scorsa settimana. E ancora: 23 tamponi positivi si sono registrati nel Cas di Gozzano (Novara), 25 all’Hotel Palace di Fiuggi (Frosinone), 19 a Bolzano, 60 su 72 ospiti sono positivi nel centro accoglienza di Sassari. E poi: Pontecagnano Faiano (Salerno), Fiesole (Firenze), Piombino, Prato, Pistoia, Licola e Arzano (Napoli), Ponte di Nona e altri centri romani, San Giuliano Terme (Pisa), Fuscaldo (Cosenza). E così via, senza soluzione di continuità. In molti casi sono scoppiate proteste e rivolte da parte di chi, chiuso in un centro, non può lavorare e provvedere al sostentamento di se stesso e dei propri cari.
Il sistema di accoglienza italiano, insomma, così com’è uscito dalla mannaia dei decreti Salvini (e non ancora corretto dai recenti correttivi voluti dall’attuale ministro dell’Interno Lamorgese), è stato messo a dura prova dall’epidemia. E oggi sta mostrando i suoi nervi scoperti. Sebbene le condizioni di vita degli ospiti nei centri di accoglienza diffusa restino ancora accettabili, in molti Cas (i centri di accoglienza straordinaria, che la stretta ha reso molto più poveri, privilegiando soprattutto le strutture più grandi) il contagio appare davvero inevitabile. A causa di mancanza di spazi, di controlli, di informazioni comprensibili per gli ospiti, e di servizi igienici adeguati. La situazione è ancora peggiore nei cosiddetti “insediamenti informali”, tutti focolai pronti a esplodere, o già abbondantemente esplosi.
Allarmi inascoltati
Eppure, in piena prima ondata, questa crisi dentro la crisi era già stata preannunciata. Per quanto riguarda i ghetti e gli accampamenti informali, il 27 marzo scorso la Flai Cgil e l’Associazione Terra scrissero una lettera-appello indirizzata a Mattarella, Conte e ai ministri dell’interno, della salute, dell’agricoltura e del sud, in cui esprimevano “profonda inquietudine e sentimenti di estrema preoccupazione per le migliaia di lavoratori stranieri che abitano nei tanti ghetti e accampamenti di fortuna sorti nel nostro Paese”. La stessa preoccupazione venne espressa poco dopo, per quanto riguarda tutti i centri d’accoglienza, da Cgil Cisl e Uil. Ma un allarme esplicito fu lanciato anche dall’Istituto superiore di sanità il 15 giugno scorso. L’Istituto riprendeva e pubblicava una guida “sulla prevenzione e il controllo nei centri di accoglienza e detenzione di migranti e rifugiati nei Paesi Ue e nel Regno Unito”, rilasciata dal Centro europeo per la prevenzione e controllo delle malattie. L’obiettivo era fornire indicazioni scientifiche sui principi di sanità pubblica proprio per quanto riguarda i centri di accoglienza e detenzione per migranti sparsi per l’Europa.
Le principali indicazioni che emergevano da quel documento, che evidentemente è passato sottotraccia, presagivano in maniera esatta quello che sta accadendo oggi. “La pandemia aggrava le vulnerabilità dei migranti e dei rifugiati che vivono nei centri di accoglienza e detenzione”, si legge. E poi: “Fattori ambientali, come il sovraffollamento nei centri di accoglienza e di detenzione, possono aumentare l’esposizione di questi gruppi di popolazioni alla malattia”. Questo perché “tutti i principi di distanziamento fisico applicati nelle comunità in generale dovrebbero essere applicati anche nel sistema di accoglienza e detenzione dei migranti”. Ma “se le misure di allontanamento fisico e di contenimento del rischio non possono essere attuate in modo sicuro”, dovrebbero essere prese in considerazione “misure per decongestionare ed evacuare i residenti”.
L’istituzione delle zone rosse, però, per il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, non è una soluzione: “Non vi è alcuna prova che la messa in quarantena di interi campi limiti efficacemente la trasmissione del virus in contesti di accoglienza e detenzione, o fornisca effetti protettivi aggiuntivi per la popolazione in generale”. Tra l’altro, i centri dovrebbero “avere la priorità per i test, a causa del rischio di una rapida diffusione dell’infezione in questi contesti”, mentre la comunicazione dei rischi richiede in questi luoghi “strategie di coinvolgimento della comunità e di comunicazione sanitaria adattate per soddisfare le diverse esigenze linguistiche, culturali e di alfabetizzazione delle diverse popolazioni”.
Queste direttive, almeno in Italia, non sono state messe in atto. Forse perché, diversamente da quanto sta accadendo in questa seconda ondata, nella scorsa primavera la prevalenza di casi positivi nei centri di accoglienza è risultata praticamente uguale a quella di tutta la popolazione italiana. L’11 giugno si concludeva infatti un monitoraggio condotto dall'Inmp (Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti ed il contrasto delle malattie della povertà) sui casi di positività al Covid fra gli stranieri presenti nel sistema di accoglienza. Il report è stato pubblicato solo a fine settembre, ma certifica che durante la prima ondata tra i 59.648 immigrati accolti, sono stati confermati solo 239 positivi, lo 0,4%, distribuiti in 68 strutture per lo più al Nord. Cifre sovrapponibili a quelle relative all’intera popolazione dopo il lockdown nazionale. Questa seconda ondata è evidentemente diversa.
Effetti collaterali
Ma oggi tra gli effetti della pandemia per i migranti non c’è solo un rischio di contagio maggiore. L'emergenza sanitaria sta infatti rendendo invisibili migliaia di lavoratori stranieri. Lo certifica il recente Dossier Statistico Immigrazione 2020, realizzato dal Centro studi e ricerche Idos in partenariato con Confronti. Il rapporto dimostra che nei primi mesi della crisi si sono contati 40-55mila lavoratori stranieri irregolari in più nelle campagne italiane. E che, da marzo a giugno, nel settore domestico si sono persi circa 13mila rapporti di lavoro regolare. Si moltiplicano poi gli stranieri senza documenti presenti sul territorio nazionale: “Stimati in 562.000 a fine 2018 (Ismu) e calcolato che, anche per effetto del Decreto sicurezza varato in tale anno, sarebbero cresciuti di ben 120-140.000 unità nei due anni successivi (Ispi), a fine 2019 erano già stimati in oltre 610.000 e a fine 2020 avrebbero plausibilmente sfiorato i 700.000 se, nel frattempo, non fosse intervenuta la regolarizzazione della scorsa estate a farne emergere (almeno temporaneamente, in base al numero di domande presentate) circa 220.500, in stragrande maggioranza dal lavoro in nero domestico e solo in minima parte dal lavoro nero in agricoltura".
Le istituzioni, però, ancora una volta sembrano ignorare il problema. A muoversi, anche oggi sono invece i sindacati. “Occorre - hanno recentemente scritto in una nota congiunta Flai e Cgil – agire subito per non dare adito alla psicosi. È fuor di dubbio che le condizioni di vita indecenti di ampie fasce di lavoratori agricoli migranti li rendono ancor più esposti al virus”. Per questo Cgil e Flai chiedono alle Istituzioni di “adoperarsi per accelerare l’attuazione di quanto previsto dall’articolo 103 del dl Rilancio che statuisce al comma 20 che “al fine di contrastare efficacemente i fenomeni di concentrazione dei cittadini stranieri in condizioni inadeguate a garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie al fine di prevenire la diffusione del contagio da Covid-19, le Amministrazioni dello Stato competenti e le Regioni, anche mediante l’implementazione delle misure previste dal Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022, adottano soluzioni e misure urgenti idonee a garantire la salubrità e la sicurezza delle condizioni alloggiative”.
“Affrontare proficuamente la situazione dei nascenti cluster negli accampamenti informali e nei ghetti passa attraverso l’implementazione di questa norma. Nel Paese, c’è un ampio patrimonio immobiliare di beni confiscati, già assegnati, che potrebbero essere adibiti all’accoglienza dei positivi riscontrati. Altre soluzioni possono essere adottate dalle Prefetture e dalle Regioni interessate. Ne va dell’interesse della comunità”, concludono Cgil e Flai Cgil.