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Nella prima metà degli anni Cinquanta le principali rivendicazioni delle donne sul terreno del lavoro riguardano l’attuazione del dettato costituzionale sulla parità salariale e la realizzazione di una tutela della maternità che garantisca non solo migliori condizioni di lavoro, ma anche una serie di servizi esterni di sostegno (asili nido, mense eccetera). La legge sulla tutela delle lavoratrici madri, per la quale si era battuta Teresa Noce, verrà approvata nel 1950.
“Questa legge - racconterà lei stessa - dovevamo elaborarla noi, donne comuniste elette per la prima volta in parlamento (…). Anche se non avevamo nessuna esperienza legislativa avremmo imparato, studiato, chiesto aiuto. Avremmo certo incontrato molte difficoltà, e saremmo state costrette a superare molti ostacoli, ma la lotta delle masse nel Paese ci avrebbe dato l’aiuto necessario. L’elaborazione del nostro progetto di legge non risultò facile. Ma tutti collaborarono, offrendoci un valido aiuto, anche se dovemmo affrontare discussioni accanite che qualche volta degenerarono in veri e propri litigi. Organizzammo piccole riunioni e grandi comizi, assemblee di operaie nelle fabbriche, commissioni di esperti cioè sindacalisti, medici, giuristi e ci incontrammo ripetutamente soprattutto con i compagni della Fiot (Federazione italiana operai tessili, ndr)”.
La legge 26 agosto 1950, n. 860 sulla “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”, proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc), introduce il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive salvo possibili estensioni. Viene garantita l’assistenza medica al parto, periodi di riposo per l’allattamento nonché il trattamento economico durante le assenze per maternità.
Il testo definitivo della legge, pur se limitativo rispetto alla proposta Noce, rappresenta un importante risultato per le lavoratrici italiane, ma apre un altro fronte di rivendicazioni. Molte imprese, infatti, per aggirare la legge, impongono alle assunte la cosiddetta clausola di nubilato, che prevede il licenziamento in caso di matrimonio.
Sempre per iniziativa di Teresa Noce, nel maggio del 1952 viene presentato alla Camera il progetto di legge per l’applicazione della parità di diritti e della parità di retribuzione per un pari lavoro, ma l’accordo sulla parità sarà raggiunto solo il 16 luglio 1960 relativamente ai soli settori industriali (le donne otterranno la parità salariale in agricoltura nel 1964).
Diceva il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’8 marzo di qualche anno fa: “Il percorso della parità non è stato semplice, né scontato. A partire dalla tutela della lavoratrici madri, introdotta dalla legge del 1950, e opera dell’impegno di Teresa Noce e di Maria Federici. Tutela progredita, in seguito, con la riforma dei congedi di maternità del 1971, fino ad approdare, nel 2000 - dopo un trentennio - a una concezione della cura parentale come impegno da condividere tra entrambi i genitori. Nel cammino di avanzamento dei diritti del lavoro - compiuto da milioni di donne e segnato da battaglie sindacali e civili, talvolta aspre - possiamo ricordare, ancora, la tappa del 1963, quando venne introdotto il divieto di licenziamento a causa del matrimonio. E quella del 1977, che, con sempre maggiore aderenza al dettato costituzionale, ha affermato la piena parità di trattamento nel lavoro tra uomini e donne”.
“Quando la Camera dei deputati ha approvato gli articoli del nuovo diritto di famiglia (che dovranno ancora essere approvati al Senato) - scriveva nel febbraio 1973 Danielle Turone su Effe - (…) la voce è stata pressoché unanime: questo provvedimento rinnova in profondità la struttura familiare”. Ma “Non basta togliere dal codice la parola ‘patria-potestà’ lasciando integro il concetto, o concedere alla donna di mantenere il proprio cognome ‘aggiungendo quello del marito’, per credere di aver dato alle donne la parità. Solo quando, oltre ai rapporti inter-familiari, muterà tutta l’organizzazione sociale, quando le sue possibilità di studio, di lavoro saranno uguali a quelle degli uomini, quando il ‘costo’ di una maternità non verrà addebitato al solo nucleo familiare ma diverrà un costo ‘sociale’, quando alloggi, servizi sociali ed assistenziali organizzati, toglieranno la donna dal ghetto delle quattro mura domestiche”, solo allora si potrà parlare di piena parità.
Solo allora e purtroppo non ancora, non oggi. In Italia le donne guadagnano il 19% in meno degli uomini che svolgono le stesse mansioni e solo il 29% delle lavoratrici supera i 1000 euro al mese. “La nuova legge sulla famiglia dà alle donne nuovi diritti”, ammetteva nel 1973 Danielle Turone - “Ma la parità è ancora lontana”. Sarebbe bello, oggi, poterle dare torto.
Sarebbe bello poterle raccontare di una società in cui il lavoro di cura non viene considerato una prerogativa esclusivamente femminile, nella quale non si chiede più a nessuno ad un colloquio di lavoro “Lei ha intenzione di avere figli”, o “È sposata?”. Una società in cui un uomo che usufruisce del congedo parentale non viene definito “mammo”, nella quale una politica, o giornalista o sindacalista, viene giudicata per i suoi meriti o demeriti e non per l’eleganza del vestito indossato o per la bellezza del taglio di capelli o dell’acconciatura.
Una società in cui a parità di lavoro consegua parità di salario. Una società basata sulla collaborazione e non sulla conciliazione, sull’uguaglianza e non sulle impari opportunità. Sarebbe bello, e continueremo a lavorare finché non lo sarà.