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Il lavoro è un elemento cardine della rieducazione ed è elemento fondante del nostro ordinamento costituzionale, fin dall’articolo 1. La Costituzione non fa differenza fra lavoratori detenuti e non, tutela il lavoro in tutte le sue forme, per questo in carcere deve perdere ogni carattere afflittivo, di sfruttamento, di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e pari diritti.
Anche la giurisprudenza costituzionale, come la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ripetutamente affermato la formale equipollenza del lavoro penitenziario con il lavoro libero, e il fatto che sia finalizzato alla rieducazione non implica di per sé alcuna deroga alla comune disciplina giuslavoristica e previdenziale. Non può essere un obbligo, né un’opportunità, è un diritto/dovere, l’amministrazione “è tenuta a” garantirlo.
Eppure ancora oggi permangono differenze importanti, a partire dalla retribuzione, stabilita nella misura dei due terzi di quella contrattualmente prevista, o nell’accesso agli ammortizzatori, cosa assolutamente non scontata se pensiamo all’impegno assunto insieme a Inca Cgil per promuovere vertenze con lo scopo di garantire il diritto dei detenuti alla Naspi. Questi i temi al centro dell’iniziativa “Le tutele del lavoro per le persone ristrette in carcere”, un confronto promosso dalla Cgil nazionale, che si tiene nella Sala Santi a Roma e in diretta su Collettiva il 1° giugno dalle 10 alle 14.
L’Inps negli anni aveva sempre riconosciuto l’indennità di disoccupazione alle persone ristrette impegnate in attività lavorativa retribuita all’interno dell’istituto penitenziario, o alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Con il messaggio 909 del 5 marzo 2019, però, ha ribaltato il proprio orientamento, non riconoscendola in occasione dei periodi di inattività in cui i detenuti vengono a trovarsi. Questo messaggio prende a riferimento la decisione della Cassazione 18505 del 2006, che recita: “L’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’istituto penitenziario non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria”.
Contro il mancato riconoscimento la Cgil, anche attraverso gli uffici vertenze, il collegio legale dell’Inca, i garanti dei detenuti, ha promosso numerosi ricorsi amministrativi sempre con esito positivo. Le norme, dalla legge del 1975 al decreto legislativo 124 del 2018, stabiliscono infatti che i detenuti che lavorano hanno diritto come tutti i lavoratori ai benefici previdenziali, a un trattamento che “deve riflettere” quello della società libera: il carcerato che lavora deve vedersi riconosciuti gli stessi diritti del cittadino libero, ha diritto a una remunerazione corrispondente alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali.
Non solo per questo riteniamo immotivata la decisione assunta da Inps nel 2019, e chiediamo che venga superata: dobbiamo infatti ricordare che la pronuncia della Cassazione cui fa riferimento è antecedente alla sentenza della Suprema Corte 341/2006, che ha confermato la competenza del giudice del lavoro (e non del magistrato di sorveglianza) nelle controversie di lavoro in cui siano parte i detenuti.
Ma, oltre a questo, un ragionamento assume fondamentale importanza: la negazione del beneficio della Naspi è in contrasto non solo con il principio di uguaglianza, ma con la funzione rieducativa, stabilita dalla nostra Costituzione, che deve avere la pena. La non completa declinazione di tutele e diritti mette, infatti, in discussione proprio il progetto inclusivo di rieducazione e reinserimento sociale che deve attuarsi attraverso il lavoro: la natura “educativa” del lavoro penitenziario deriva dal fatto che si ripropone il vincolo di subordinazione proprio dei comuni, normali, rapporti di lavoro, e dal fatto che sia accompagnato dalle comuni tutele giuslavoristiche.
Sono contraddizioni che ancora sottendono una certa logica punitiva nei confronti dei reclusi. Solo riconoscendo piene tutele e concreti diritti la persona ristretta può riconoscersi appieno come lavoratore. Come sostiene il Garante nazionale Mauro Palma, si è in carcere perché si è puniti, non per essere puniti, e la negazione delle normali, comuni, tutele giuslavoristiche è un’ulteriore afflizione.
Come organizzazione sindacale non possiamo accettare che i diritti del lavoro siano declinati in maniera diversa a seconda di chi è la persona che svolge quel lavoro. Se vogliamo che il detenuto possa riconoscersi davvero come lavoratore, portatore di diritti e doveri, e passare dalla condizione di detenuto lavoratore a quella di lavoratore detenuto non possiamo permettere che prevalga quel pensiero, oggi predominante, per cui le persone ristrette possono (o addirittura devono) avere diritti inferiori. È la persona a essere al centro, con i suoi diritti, con la sua dignità. Lavoro, salute affetti devono essere garantiti a tutti.
Il 20 maggio scorso abbiamo ragionato a Firenze su un contratto individuale di assunzione per chi lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, oggi 1° giugno affrontiamo il tema del riconoscimento della Naspi, all’interno della riflessione complessiva che come Cgil portiamo avanti perché il lavoro in carcere abbia pieno riconoscimento e pieni diritti. Altrimenti non è lavoro: è altro.
Denise Amerini è responsabile dipendenze e carcere area Stato sociale e diritti Cgil
Corrado Ezio Barachetti è coordinatore nazionale Mercato del lavoro Cgil