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Per anni, a lezione ho raccontato ai miei studenti che l’evoluzione del diritto sindacale era governata da una stabile coalizione composta delle (tre)
confederazioni sindacali maggiormente rappresentative che, dopo l’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori, sembrò addirittura in procinto di trasformarsi in una federazione unitaria. Non diversa era l’opinione di Gino Giugni: la storia del sindacalismo del dopo-costituzione (disse una volta) è in realtà “la storia di come sia cresciuta all’interno di un sistema pluralistico una condizione, se non anche un progetto, di unità sindacale. Gli anni dal Sessanta al Settanta io li vedo come gli anni in cui l’unità sindacale è nei fatti”. Ma c’era anche chi come Piero Boni parlava spesso di una “quarta confederazione senza nome e senza bandiera”. La medesima impalpabile entità, cioè, che la Consulta non esiterà a sponsorizzare come freno delle logiche aziendalistiche che spezzano la coesione delle larghe solidarietà d’interessi di cui il club si considera espressione. Infatti, riaffermerà la costituzionalità della versione (anteriore alla modifica referendaria) dell’articolo 19 dello Statuto contestata da più parti perché finiva per premiare il club con eccessiva generosità. Un club che di fatto ha preso il posto dell’organismo sindacale costituzionalmente legittimato a produrre le “leggi delle categorie professionali” (art. 39, comma 4°), rovesciandone la logica di fondo: una logica inclusiva, perché possono fare parte dell’organismo tutti i sindacati che abbiano superato positivamente un test di affidabilità democratica; mentre l’ammissione al club era una faccenda tra e di privati disposti a dispensarsi reciprocamente certificati di garanzia del rispettivo pedigree.
È da settant’anni che in Italia le parti sociali si appassionano ad un gioco che non ha equivalenti nel panorama internazionale. Il gioco consiste nel restare fuori della Costituzione senza, per ciò stesso, mettersi contro, obbligando i giocatori a cercare altrove ciò che vi sta dentro. Lo spettacolo è talmente familiare al pubblico di casa da non impressionare più nessuno. Tuttavia, mi sono venuto persuadendo che all’assuefazione ha contribuito anche la decisione della storiografia giuridico-sindacale di prendersi una vacanza. Considerando che questo capolavoro di acrobazia è una conseguenza di costrizioni imposte dalla storia – valutazione in sé corretta – si è auto-esonerata dall’esaminarlo criticamente. Il che è soltanto un arbitrio. Perciò, anche se è insensato polemizzare con ciò che doveva succedere, non sarà mai troppo tardi porsi una serie di interrogativi. Più sugli effetti di una persistente a-legalità costituzionale che sulle sue ragioni, più sui costi degli espedienti messi in atto che sulla loro efficacia, più sulla preterintenzionalità degli esiti raggiunti che sulla lucida determinazione di raggiungerli. Nessuno si è rivolto domande del genere nemmeno in presenza dell’evento più significativo, anche se tuttora incompleto, prodotto dall’autonomia negoziale collettiva negli ultimi vent’anni. Infatti, è l’insufficienza della griglia di lettura che ha impedito alla generalità dei commentatori di mettere a fuoco come il Testo unico sulla rappresentanza sindacale (2014) fosse il segnale più eloquente che il sistema era giunto sull’orlo dell’implosione perché le conseguenze dello sgretolarsi degli argini di contenimento del suo processo di de-costituzionalizzazione si erano sommate a quelle derivanti dall’eterogenesi dei fini subita dalla norma-simbolo della legislazione di sostegno, l’articolo 19 dello Statuto, dopo la riformulazione che nel 1995 ne aveva dettato il legislatore popolare.
Il virus della contrattazione “separata”, anche a livello nazionale, stava minacciando la tenuta del sistema contrattuale e, nella Fiat di Sergio Marchionne, l’articolo 19 era degenerato in un meccanismo di estromissione dall’area legalmente protetta di un sindacato, la Fiom, di cui nessuno può contestare né l’effettività né l’ampiezza della sua capacità rappresentativa, ma che non aveva sottoscritto l’accordo aziendale. Tant’è che nel 2013 l’Alta Corte si pronuncerà nel senso che, come la sottoscrizione meramente formale del contratto aziendale non basta a fondare la titolarità dei diritti sindacali, così la mancata firma non può produrne la perdita; diversamente, si legittimerebbe “una forma impropria di sanzione del dissenso che incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato” e, al tempo stesso, sulla libertà dei lavoratori di scegliere la rappresentanza che vorrebbero. Se la Corte non avesse rattoppato lo strappo, i successivi anniversari della nascita dello Statuto per molti osservatori sarebbero state altrettante occasioni di celebrazioni commemorative.
Una norma da abrogare
Mi è già capitato di scrivere che, se (putacaso) un giorno avesse dovuto capitolare, il diritto del lavoro di cui lo Statuto è magna pars sarebbe deceduto per sfinimento, stremato da uno stillicidio di modifiche. Più o meno profonde, più o meno sanguinose. Come le banderillas. Che non infliggono ferite letali, ma segnano egualmente l’inizio della fine della fiesta. Adesso so che quel giorno è arrivato. Ma a vibrare il colpo decisivo non sarà un famoso matador. Nell’arena infatti sono virtualmente scesi a grappoli picadores di cui non è dato conoscere né il volto né il nome. Chissà, forse era scritto che al diritto che dal lavoro ha preso il nome sarebbe toccato morire come era nato: nell’anonimato e senza gloria. Per questo, l’articolo 8 della legge 148/2011 è una norma di cui ho sempre pensato che chi l’ha scritta potesse avere l’aspetto o di un killer con gli occhi di Bambi o di un professionista del gioco d’azzardo che si diverte un mondo a vedere l’effetto che fa sugli astanti la sua temerarietà. La norma attribuisce alla contrattazione collettiva periferica (“di prossimità”, nel linguaggio legislativo) la facoltà di derogare in peius non solo alla contrattazione nazionale, ma anche a gran parte della stessa normazione legificata. Come dire: ferisce a morte il diritto del lavoro. Allorché venne resa nota nella versione anticipata da un decreto di ferragosto, la disposizione provocò una certa sovra-eccitazione. Fece cadere in ilare delirio il segretario generale della Uil: “è il massimo del potere sindacale!”; e l’omologo della Cisl non esiterà a definire “demenziale” lo sciopero di protesta proclamato dalla Cgil – mentre c’era semplicemente da chiedersi “se non ora, quando?”, come replicò una stizzita Susanna Camusso. Dal canto suo, l’opposizione politica preferì buttarla in diplomazia come la intendeva Henry Kissinger, secondo il quale i diplomatici sono bugie vestite in abito da sera. Fatto sta che non andò oltre la rituale manifestazione di solidarietà che conoscono bene le vittime di catastrofi naturali: ai sinistrati non si manca mai di promettere qualche forma di soccorso. Quanto, poi, al comportamento di quotidiani e TV, è documentabile che evitarono di dare alla notizia il rilievo che meriterebbe. Né nell’immediato né in seguito. Con la sola scusante che quelle erano le settimane del concitato ruit hora dell’ultimo governo di centro-destra. Le reazioni forniscono con buona approssimazione la misura dell’estensione raggiunta dall’inquinamento delle falde sotterranee nelle quali il diritto del lavoro aveva messo le radici.
L’oscenità legislativa, infatti, nel complesso crea un clima imbarazzato, ma più permissivo che di rigetto. Perché? A mio avviso, perché non solo i governanti condividono l’idea che il lavoro rientra in maniera pressoché esclusiva nella sfera degli interessi di chi lo vende e di chi lo compra e che la regolazione dello scambio spetta a soggetti che agiscono in base ad una concezione proprietaria della contrattazione collettiva. Come dire che la trasversalità della condivisione del background dell’articolo 8 ne fotografa l’ampiezza. La stessa richiesta di abrogarlo mediante referendum sarà giudicata “inopportuna, scriteriata, populista” e l’unanime valutazione della politique politicienne sarà confortata dall’assordante silenzio dei mass media che boicottarono l’iniziativa referendaria, oscurandone l’informazione. E ciò perché essa aveva il torto di alzare la soglia di attenzione e, incautamente, avrebbe potuto allertare l’opinione pubblica. In definitiva, il destino del diritto del lavoro sembra interessare – sia pure con moderazione – soltanto a quanti se ne occupano per motivi professionali. I più fanno circolare con aria di sufficienza la voce che il documento legislativo è tanto sgangherato che sarà liquidato o aggiustato nelle sedi competenti. Solo una piccola minoranza si mette a studiarlo sul serio, prendendo posizione. Si tratta di giuristi-scrittori nessuno dei quali, magari, è disposto a dire di sé, come Gino Giugni, che “non saprà mai se è un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. Ciascuno di essi, però, sa che “il giurista fa politica e i suoi tempi sono quelli della politica”, come diceva Federico Mancini. È questa l’etica del mestiere che ha motivato a scrutinare l’articolo 8 alla luce delle prescrizioni costituzionali fino a contare una mezza dozzina di violazioni. Con rara univocità di vedute. Le voci provenienti dal ceto degli operatori giuridici sono meritevoli di elogio. Non solo per tempestività e ricchezza di analisi. Ma anche per la genuina angoscia che lasciano trapelare. In effetti, la minaccia di destrutturare un esteso corpus normativo che con grande fatica aveva acquistato una propria organicità e una propria identità è fronteggiata con lo stato d’animo di chi sta vivendo un incubo da apocalisse. Il fatto è che, più intrigante di quanto non si pensi, l’articolo 8 rende palese quel che si celava in una prassi circondata da vasti consensi. Come dire: le conseguenze attese sono apocalittiche perché la norma solleva un velo. In greco, apocalisse non significa soltanto distruzione; significa anche rivelazione di cose nascoste. E ciò, se non è sufficiente per affermare che l’articolo 8 non è un mostro generato dal sonno della ragione, un bel po’ di allarme lo crea.
Perché, invece, non fare apertamente i conti col passato? Farli significa maturare la consapevolezza che, dato e (per ora) non concesso che abbia luogo, la soppressione dell’articolo 8 civilizzerà senz’altro l’habitat giuridico-istituzionale, ma coeteris paribus non potrà comportare automaticamente né il blocco né l’inversione delle tendenze di lungo periodo di cui la norma rappresenta il segmento conclusivo. Il dato da cui partire è che la norma pesca nel profondo e, poiché valorizza in misura esponenziale la dimensione privatistica, patrimonialistica e mercatistica degli interessi in gioco, interpella direttamente gli operatori giuridici: giudici, avvocati e giuristi-scrittori, ovviamente – ma anche negoziatori sindacali, capi del personale privato e pubblico, consulenti del lavoro. Nessuno di loro infatti può dirsi estraneo al processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed allontanato il lavoro, le sue regole e la sua rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore interesse presidiato dallo Stato. Anzi, ne sono stati protagonisti. Non che, ci tengo a sottolineare, l’articolo 8 ne rappresenti l’inevitabile punto d’arrivo, come se ne fosse il necessario completamento. Ciò non toglie che la sua spudorata radicalità finisca per accentuarne la continuità con la politica del diritto che ha egemonizzato il dopo-costituzione in materia sindacale e del lavoro. Ci sono insomma indizi bastevoli per invogliare a storicizzare la norma, situandola all’interno del più ampio orizzonte di senso ove è rinvenibile la chiave di lettura che permette di riconoscervi l’estremizzazione della logica sulla quale si è costruito l’impianto politico-culturale di un’intera esperienza giuridica.
La legge non scritta del doppio binario
Non tutti sono tenuti a sapere; viceversa, è bene che soprattutto i più giovani sappiano che il cambio di regime non innovò il complesso delle preesistenti regole del lavoro dipendente. Erano quelle contenute nel codice civile del 1942 che, malgrado l’invadenza della coeva ideologia corporativa e le affabulazioni di quella specie di “libro bianco” che era la Carta del lavoro del 1927, custodiva la memoria della loro origine privatistico-liberale certificata dalla giurie probivirali di fine Ottocento. Erano quelle ereditate da una contrattazione collettiva gestita per un ventennio da sindacati sottomessi ad uno Stato padre-padrone e da un codice penale (1930) che criminalizzava lo sciopero in tutte le sue forme. Eppure, la Costituzione, che attribuisce al lavoro una valenza fondativa della stessa Repubblica, esprime l’idea di come possono atteggiarsi rapporti tra Stato e sindacati in un regime democratico. Ciò non era mai accaduto nella storia dell’Italia unita. Era la prima volta.
L’articolo 39 della Costituzione privilegia, tra i numerosissimi profili che possono descrivere il sindacato, quello che ne fa un centro privato di co-produzione normativa e, al tempo stesso, riconosce al contratto collettivo (nazionale, che all’epoca della Costituente dominava specialmente nell’industria) il rango di fonte regolativa vincolante per la generalità dei suoi destinatari. Esso infatti acquista un’efficacia para-legislativa in presenza dei presupposti che la legge di attuazione avrebbe dovuto stabilire in conformità all’enunciato costituzionale. Subordinato il riconoscimento giuridico dei sindacati da parte dello Stato all’accertamento della democraticità dei rispettivi statuti – cosa non prevista nemmeno per i partiti politici – il 4° comma dell’articolo 39 concede ai sindacati che abbiano superato il prescritto test di affidabilità democratica, cui si siano volontariamente sottoposti, il diritto di partecipare ad un organismo di rappresentanza unitaria delle categorie professionali. Soltanto così ciascuno di essi è messo de iure nella condizione di concorrere alla formazione di regole del lavoro generalmente vincolanti, anche se de iure e de facto vi concorre con un potere contrattuale calcolato “in proporzione” degli iscritti.
Insomma, i padri costituenti ritenevano che il sindacato “degli iscritti” non fosse la stessa cosa che sindacato “dei lavoratori”, ma che la sindrome universalistica appartenesse più alla storia del sindacalismo euro-continentale che ad ideologie precostituite. Vittorio Foa riassumerà il loro pensiero testimoniando che il sindacato inteso come un libero soggetto di autotutela munito del potere di rappresentanza degli iscritti in base agli ordinari meccanismi previsti dal diritto civile e, al tempo stesso, come l’incaricato di una funzione di pubblica utilità esercitabile in forma bilaterale “è presente nella stessa costituzione”. D’altra parte, se già in periodo pre-corporativo si percepiva l’irriducibilità del contratto collettivo al diritto privato, è proprio perché gli si attribuiva una natura duale, in bilico tra privato-sociale e pubblico-statuale. Pertanto, come il sindacato si modella sull’icona mitologica del centauro: metà uomo e metà cavallo, così il contratto collettivo – e segnatamente il contratto nazionale di categoria che è stato il baricentro del sistema regolativo – è la risultante di un’ibridazione normativa sconosciuta alle categorie giuridiche della tradizione.
La principale debolezza del progetto risiede non tanto nel suo schematismo burocratizzante quanto piuttosto nella facilità con cui si presta ad una narrazione che finisce per evidenziarne le contaminazioni col fascismo giuridico; il quale aveva cinicamente sfruttato le specificità che contraddistinguono il sindacato e il prodotto di più largo consumo della sua azione, rispettivamente, nel panorama dei fenomeni associativi e nell’ambito delle manifestazioni dell’autonomia privata, per impossessarsene e divorarli. Infatti, giuristi del valore di Gino Giugni e Federico Mancini – gli stessi che, sottraendosi per gap generazionale e diversità di formazione alle seduttive suggestioni che malgrado tutto l’esperienza corporativa seguita a produrre, fonderanno una nuova scuola di pensiero – non disapprovano il legislatore che si astiene dall’attuare il progetto costituzionale. Tutt’al contrario, ne incoraggiano l’inerzia cui conferiscono una persuasiva legittimità storico-culturale. Spiegano, infatti, come ad un movimento sindacale con gli enormi ritardi da colmare che aveva il nostro, quanto ad esperienza di libertà ed autonomia, si dovesse lasciare l’opportunità di costruirsi la sua al di fuori di schemi regolativi prefabbricati all’esterno e calati dall’alto. Ancora oggi, del resto, soltanto per partito preso si può affermare che nelle sue vene ci fossero gli anticorpi per opporsi alla legislazione intrusiva che le maggioranze parlamentari dell’epoca avrebbero sicuramente partorito. Vero è che l’incipit dell’articolo 39 è perentorio: “L’organizzazione sindacale è libera”, ed è difficile dire di più con meno parole.
Ciononostante, se negli anni Cinquanta si fosse legiferato, si sarebbe statuito che è lecito soltanto lo sciopero attuato mediante un’astensione simultanea dal lavoro di tutte le maestranze, indetto dalle associazioni giuridicamente riconosciute, a contratto collettivo scaduto e per modificarne le clausole. Pertanto, tra una legislazione restrittiva dell’articolo 40 e una secca inadempienza della promessa dell’erga omnes costituzionale, la scelta appare davvero obbligata: in vigenza della conventio ad excludendum che regola la dinamica politica all’epoca della guerra fredda, legalizzare la repressione della conflittualità sociale significa dare un calcio al modello di società promesso dalla Costituzione, che lo disegna nel 2° comma dell’articolo 3, e buttarlo nel pozzo delle ambizioni sbagliate. Come dire che la delegittimazione della Costituzione è iniziata proprio in nome della democrazia ed è per salvare quest’ultima che l’attuazione dell’articolo 39 venne rinviata sine die, congiuntamente all’attuazione dell’articolo 40 che con l’articolo 39 vive in perenne simbiosi. Nel pozzo delle ambizioni sbagliate, però, insieme col breviario legificato del buon scioperante, c’è finita anche la regolazione del pluralismo sindacale nelle ipotesi in cui la concorrenzialità (che è intrinseca al pluralismo) giunga a compromettere il rendimento dei sindacati come centri privati di co-produzione normativa. I padri costituenti sapevano che la compresenza di contratti collettivi sottoscritti da sindacati in concorrenza tra loro e applicabili ai soli iscritti, pur rappresentando un logico corollario di un regime di libertà sindacale incondizionatamente garantita, ha elevati costi sociali e non è detto che possa essere utile alla controparte. Per questo, puntavano sull’unicità dei negoziati e affidavano la soluzione dei conflitti endo-sindacali che si manifestassero nel momento di concluderli alle maggioranze possibili all’interno di un organismo dove il potere contrattuale collettivo dei sindacati si distribuisce in proporzione alla consistenza associativa dei medesimi.
Da un lato, quindi, si preferì fare assegnamento sul pragmatismo dei sindacati, scommettendo sulla loro disponibilità a trattenersi dal farsi sgambetti e ad optare per la cooperazione sufficiente ad assicurare una tendenziale convergenza di comportamenti rivendicativo-contrattuali. Contemporaneamente, si ritenne che il controllo del conflitto sociale avrebbe guadagnato moltissimo sul piano dell’efficienza se, anziché una legge sindacale organica varata dopo infinite turbolenze politico-parlamentari ed esposta a rilievi d’incostituzionalità da parte del giudice delle leggi che prima o poi si sarebbe dovuto istituire, lo Stato avesse agito per vie interne, servendosi con discrezione di soggetti istituzionali politicamente non responsabili, come i magistrati, i questori e i prefetti, ma culturalmente più legati al passato e dunque meno ostili in linea di principio alla legificazione cingolata emanata in età fascista. Infatti, il giudizio di disvalore di cui quest’ultima era oggetto in significativi settori della società civile e politica stentava a penetrare negli apparati statali e in chissà quante case abitate da comuni mortali erano in molti a ritenere che potesse bastare un energico, ma intelligente maquillage.
Lo Stato, insomma, sceglie una linea di politica del diritto morbida, flessibile, praticabile senza provocare contrasti frontali. Ai miei studenti ne parlavo come della legge non scritta del doppio binario: non-ingerenza e non-indifferenza. È la legge che ha trovato applicazione per tutto il tempo occorrente per bonificare il terreno nel quale era germogliata la normativa fascista. L’ininterrotto dominio della gius-privatistica Come accennavo poc’anzi, tra le numerose ragioni della scomparsa dell’articolo39 (e dell’articolo 40) dal radar del Parlamento non è secondaria quella che ha a che fare col ruolo dei giuristi che avevano marcato la stagione dell’ascesa del diritto sindacale e del lavoro nel dopo-guerra. In proposito, spicca il nome di Gino Giugni, "sostanzialmente un autodidatta”, è stato detto: “allievo della sua curiosità intellettuale e della sua sensibilità sociale”. Nel giro di pochi anni, la sua Introduzione allo studio della autonomia collettiva – che è del 1960 – diventa, come tutta la sua fitta saggistica, una lettura formativa obbligatoria per intere generazioni di giuristi del lavoro e larghi strati della popolazione forense a contatto con le problematiche del lavoro. L’esito non era affatto scontato. Quindi, non è ozioso chiedersi come mai la sua egemonia culturale abbia potuto stabilizzarsi senza costringerlo a sostenere un duello in campo aperto: “quasi senza lotta” – confesserà lo stesso Giugni, più stupefatto che soddisfatto. Di sicuro, non si ebbero scontri dialettici paragonabili, per livello di pathos e ricchezza di argomenti, a quello che nella prima metà degli anni Cinquanta vide la gius-pubblicistica, rappresentata da Costantino Mortati, lanciarsi all’assalto della materia sindacale e del lavoro per impadronirsene “nello spirito della costituzione” e la gius-privatistica, rappresentata da Francesco Santoro Passarelli, respingerlo con dura determinazione “nello spirito della libertà dei privati”, riaffermandone così il dominio assoluto che aveva instaurato dalle origini. Il che, tradotto nel linguaggio di un giovane dell’epoca ai primi passi della carriera universitaria, voleva dire che ”le cattedre di diritto del lavoro sarebbero state aggiudicate in quasi totalità all’area privatistica”.
Come mai, allora, è potuto succedere che il copyright dell’identità disciplinare del diritto del lavoro sia stato ceduto ad un outsider eretico come Giugni? La domanda non può non sollecitare l’approfondimento delle motivazioni della rinuncia. I duelli non piacciono più? Fiducia che alla fine il mos italicus iura docendi avrebbe prevalso? Potenza del ruolo di persuasore occulto che involontariamente giocò negli ambienti dei giuristi cattolici la Cisl di Giulio Pastore che, nata dopo la scissione della Cgil unitaria, aveva bisogno di darsi lineamenti riconoscibili? Dopotutto, ad un sindacato educato da intellettuali di vaglia a guardare all’esperienza sindacale nord-americana non sfuggivano le difficoltà di trasporla in un paese con una costituzione che assume la bipolarità del sindacato come un elemento costitutivo del suo codice genetico. Pertanto, la dottrina romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici riscoperta da Giugni, che la trasferisce nell’ambito dei rapporti sociali gestiti dal sindacato, era proprio quel che ci voleva per avallare una posizione senza riscontri nel panorama delle formazioni sindacali europee. Sì, sono tutte risposte verosimili. Ma la più persuasiva è quella pacatamente e lealmente esposta da Giuseppe Pera: “è giusto che stravinca il più bravo di tutti, soprattutto come protagonista teorico e pratico della politica del diritto del lavoro”. Per quanto mi riguarda, aggiungerei questa semplice annotazione: se un vero confronto culturale non c’è stato, nemmeno ha potuto esserci una vera sconfitta. In effetti, i giuristi che al seguito di Giugni prendono posto nella cabina di regia dell’evoluzione della cultura giuridica del lavoro non sono mica degli alieni. Enfatizzano, tutti, la superiorità della contrattazione collettiva come strumento regolativo in alternativa alla legge fino a idealizzarla e glorificarla, benché (o forse proprio perché è) costretta ad indossare un abito che non può non andarle stretto, visto che il diritto comune dei privati non sa nemmeno cosa sia. E si dicono convinti, tutti, che il diritto del lavoro non è scritto nel libro V del codice civile, ma nemmeno nella Costituzione; e difatti nessuno di loro prova un serio imbarazzo a considerare bene economico liberamente negoziabile tutto ciò che è fonte di arricchimento: a cominciare dal lavoro. Su queste sponde non sono sbarcati né per caso né da soli. Vi sono stati traghettati dalla tradizione civilistica.
Come dire che il tramonto della mono-cultura della gius-privatistica non significa che il suo messaggio venga lasciato cadere. Ha dei continuatori: per questo, Mario Rusciano potrà (dottamente) parlare di prospettive “sincronicamente complementari”. Il dissenso, infatti, attiene alla metodologia di ricerca impiegata e quella di Giugni rompe col legalismo di una tradizione stato-centrica. Ma, stando così le cose, si comprende che ai dissenzienti-perdenti non restasse che consumarsi in un comprensibile, ma banalissimo risentimento. Quello di essersi fatti sorpassare dal collega che, presagendo il futuro, aveva intuito che la storia avrebbe premiato chi si fosse per primo messo a riflettere in maniera sistematica sul provvisorio. In altri termini, dal momento che la legge sindacale organica non sarebbe mai arrivata, tanto valeva considerare permanente il transitorio e cercare di capire cosa si poteva costruire nel frattempo. Infatti, come ha scritto Giovanni Cazzetta, “nel silenzio della legge, sarà soprattutto a contatto del diritto effettivamente prodotto giorno dopo giorno dai privati che la disciplina troverà quel cemento scientifico che ricercava da tempo”. Il sindacato come centro privato di co-produzione normativa nel dopo-Costituzione. Bisogna ammettere che si è giocato un gioco di cui neanche il più abile dei giocatori era in grado di prevedere tutti gli sviluppi.
Per un lungo tratto, però, le cose hanno funzionato passabilmente. Lo si deve al concorso di tanti fattori. Non da ultimo alla spregiudicatezza di un sindacato come la Cisl che, pur sviluppandosi in aperta polemica con la legislazione corporativa, tifa per la vittoria nelle aule giudiziarie dell’opinione favorevole a blindare i contratti collettivi con gli automatismi previsti dalla legge del 1926 legata al nome di Alfredo Rocco. Infatti, è con l’apporto di esperti di riciclaggio delle leggi in contesti mutati che la normativa di cui il sindacato del dopo-Costituzione è un co-produttore si è procurato il requisito dell’inderogabilità che era coessenziale ai contratti collettivi corporativi. Dal canto suo, un sindacato come la Cgil non ha mai smesso di pensare che il contratto nazionale orfano dell’erga omnes fosse paragonabile ad un grande serbatoio idrico sprovvisto dell’impianto capace di trasformare l’energia potenziale dell’invaso in energia cinetica e di trasportare l’elettricità in tutte le abitazioni. Per questo, salutò con favore la decisone parlamentare di garantire in via transitoria l’erogazione del servizio aggirando l’articolo 39 – eravamo nel 1959 – ed ha sempre valutato positivamente il formarsi del massiccio orientamento giurisprudenziale che – con buona pace del diritto comune secondo il quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti, ma fornendo un esempio di scuola della creatività degli interpreti – estende ai senza-tessera sindacale gli standard protettivi valevoli per gli altri. Come dire che, nell’immaginario e nella stessa memoria storica dei nostri maggiori sindacati e di gran parte della magistratura non solo di vertice, un contratto collettivo (nazionale) derogabile persino dagli affiliati alle organizzazioni stipulanti e con una sfera di efficacia circoscritta ad un terzo o poco più degli interessati assomiglia ad un animale azzoppato. Per questo, fa tenerezza ed è giusto aiutarlo. L’empatia che suscita ha trovato nella giurisprudenza un interprete disposto a colmare (o a rendere tollerabile) il vuoto normativo attraverso il riciclaggio di pezzi di diritto corporativo, riproducendo così nei limiti del possibile l’esperienza giuridica che i giudici avevano imparato a conoscere studiando all’Università. Il che però significa che il sindacato del dopo-Costituzione ha evitato l’inondazione legislativa “minacciata” dai padri costituenti optando per la devoluzione al potere giudiziario di un compito che attiene alla sua mission ego-altruistica ed invece gli appare paradossalmente ultra vires.
È il compito di tutelare il lavoratore con riguardo meno alla sua (eventuale) veste di associato che a quella (pressoché certa) di utente del servizio di più largo consumo che ci si aspetta da un sindacato. Anche per questo, la visibilità politicamente più significativa dell’intenzione di non scaricare il prezzo del vuoto creato dall’inattuazione dell’articolo 39 sulle moltitudini dei non-sindacalizzati, ossia della stragrande maggioranza dei lavoratori, è stata raggiunta con la decisione dei sindacati di far cadere l’accento su ciò che li unisce evitando nei limiti del possibile di acutizzare ciò che li separa. Difatti, non ha torto Gian Primo Cella a ravvisare nell’unità d’azione “una vera e propria alternativa funzionale alla mancata applicazione dell’articolo 39”. Anzi, la coalizione di governo del sistema delle relazioni industriali del dopo-Costituzione che ha visto la partecipazione delle confederazioni maggiormente rappresentative ha sempre avuto una valenza doppiamente para-costituzionale. Da un lato, permetteva al sistema contrattuale di posizionarsi fuori della Costituzione senza per ciò solo antagonizzare irreparabilmente il rapporto con la medesima. Dall’altro, se confermava che l’inattuazione del progetto costituzionale non impediva a quest’ultimo di conservare attualità, al tempo stesso testimoniava che la sua persistente attualità non equivaleva di per sé alla sua attuabilità.
Paradossalmente, insomma, malgrado l’impressionante numero di chiodi che sigillano la bara in cui è stato deposto e giace, l’articolo 39 ha le proprietà di una stella morta da cui continua ad arrivare la luce. Tuttavia, l’insieme dei rimedi escogitati non poteva certo cicatrizzare la ferita subita dalla Costituzione. Infatti, poiché l’unità d’azione si basa su di un tacito patto disdettabile in ogni momento per calcoli d’opportunità, ogni tanto tra le maggiori confederazioni scoppiano liti e, come tra marito e moglie, volano i piatti. Ma non tutte le crisi colpiscono il cuore del sistema. Sono riassorbibili. Anche le più gravi non si convertono in rotture definitive e i carissimi nemici non abbandoneranno il gioco che hanno cominciato a giocare in qualità di enti esponenziali della società civile. E ciò perché considerano irrinunciabile la scoperta che l’antica massima ubi societas ibi ius può non significare soltanto che la società non può fare a meno del diritto: significa anche che la società produce diritto in senso proprio, un ordinamento cioè che – secondo la teorizzazione, in parte giustificazionista e in parte predittiva, di Giugni – possiede una propria originalità normativa ai cui margini si arresta anche lo Stato, con le sue leggi e i suoi giudici.
Niente può fallire come il successo
Niente può fallire come il successo, è il parere di un grande che se ne intende. Infatti, a un certo punto (Pomigliano docet) il processo di de-costituzionalizzazione che emargina lo Stato è scappato di mano producendo situazioni ad un passo dall’anti-costituzionalità, perché il suo argine di contenimento si è sgretolato. Come dire che gli sviluppi più recenti minacciano quella stessa libertà sindacale di cui il gioco durato per mezzo secolo avrebbe dovuto celebrare l’apologia. Nondimeno, sarebbe una sciocchezza aspettarsi che i sindacati si comportassero come il figliol prodigo che torna dal padre per confessargli i danni che ha causato alle stesse idee di progresso per seguire le quali se ne era andato di casa. Oltretutto, non ce n’è neanche bisogno. La Cgil non ha nulla da rimproverarsi per non essersi fidata di un Parlamento che nella lunga stagione dei governi centristi demonizzava tutto ciò che aveva odore di sinistra di classe e, da parte sua, la neo-nata Cisl aveva tutto l’interesse a dissuadere il suo partito politico di riferimento dall’insistere per colmare il vuoto regolativo tramite una legge che, trasferendo il principio di maggioranza nella dinamica delle relazioni industriali, rischiava di strozzarla nella culla. In ogni caso, è impossibile ripartire daccapo. E ciò, come ha scritto Stefano Rodotà, non solo perché “non c’è l’ora X in cui può essere presentata all’incasso la cambiale” del rinvio dell’attuazione costituzionale, ma anche perché “quello che intercorre tra il giorno dell’approvazione della costituzione ed il giorno della sua attuazione non è un periodo che possa essere ignorato, quasi fosse una parentesi chiusa la quale si torna alla purezza delle origini: heri dicebamus”. Come dire: prima di decidere sul da farsi, è indispensabile stabilire cosa sia successo medio tempore. Può darsi infatti che in materia sindacale e del lavoro sia successo quel che una lettura storico-critica ha accertato in altre materie di rilevanza costituzionale: tra “la posizione di chi subì il rinvio come una realistica necessità” e “quella di chi vedeva in esso lo strumento che consentiva di accantonare definitivamente” la questione ha nettamente prevalso la seconda.
Nel caso nostro, peraltro, è accaduto di peggio: l’ampio ricorso alla cosiddetta legislazione devolutiva della seconda metà degli anni Settanta (che tenne a battesimo il diritto del lavoro “dell’emergenza”) postulava addirittura la finzione che la questione si fosse in qualche modo risolta. È plausibile supporre che lo slittamento di ragioni e significati della disattivazione costituzionale non sia avvenuto di colpo e sia stato invece graduale; graduale quanto il superamento della legge non scritta del doppio binario sia per effetto dell’esaurirsi delle sue potenzialità sia in seguito ai mutamenti degli scenari, politici e normativi. Si può convenire, quindi, che il calo di vigilanza su quanto stava capitando sia cominciato dopo che lo statuto dei lavoratori si è intrecciato col duttile atteggiamento dello Stato verso le tematiche sindacali e del lavoro, da un lato, sostituendo alla non-indifferenza un positivo interessamento e, dall’altro, rovesciando la non-ingerenza nel suo opposto: una direttiva di sostegno all’auto-composizione della conflittualità sociale senza la pretesa di regolarne soggetti e mezzi; la Cisl, raggiunte le dimensioni di un’organizzazione di massa, non aveva più bisogno della protezione di governi amici; la Cgil ha smesso di (far) credere che un buon risultato elettorale, buono per il Pci, fosse meglio di un buon contratto; il Muro di Berlino è crollato e l’indebolimento del fattore K ha sbloccato la democrazia nel nostro paese; le risultanze delle consultazioni referendarie dell’11 giugno 1995, che ho sempre considerato la più grande inchiesta che sia mai stata fatta per sapere cosa gli italiani pensano del sindacato, ne hanno misurato la distanza dalle agiografiche concezioni che in passato lo raffiguravano come un venerabile garante della coesione sociale ed un artefice di benessere collettivo diffuso; la sinistra politica ha fatto la fine del soldato partito per il fronte di cui c’è chi dice che sia morto, ma c’è anche chi dice che sia caduto prigioniero del nemico e guadagna consensi persino l’idea che abbia disertato.
Tutto ciò, e molto altro ancora, è successo nell’arco di svariati lustri. Senza suscitare idee nuove e anzi, casomai, rafforzando la più vecchia. L’immobilismo è generale, ma quello del sindacato è stato monumentale. Sintomatica è la sua indifferenza agli esiti del massiccio sondaggio d’opinione di cui dicevo poc'anzi. Infatti, si è comportato come se i quesiti referendari fossero un fastidio e, una volta conosciuti i responsi popolari, ha sposato l’interpretazione che si accontentava di propagandarne l’irrilevanza pratica. Come dire che non è stato sollecitato ad una reazione che non fosse di miopia rancorosa. Viceversa, l’elettorato non si sarebbe pronunciato per l’abrogazione della norma dello Statuto che obbligava gli imprenditori (a richiesta dei dipendenti) a riscuotere le quote sindacali tramite trattenute sulle buste-paga, se non si fosse persuaso che il sindacato è un’associazione eguale a tutte le altre e dunque se non avesse visto un trattamento di riguardo ormai destituito di buone giustificazioni in ogni forma di agevolazione del suo auto-finanziamento. Ancora più pericolosa è stata la sotto-valutazione della risposta del legislatore popolare al secondo quesito referendario; e ciò perché il responso delle urne lesionava gravemente la trama statutaria, producendovi una crepa che l’attraversa tuttora come una faglia sismica.
In effetti, l’articolo 19 dello Statuto era uno dei rami su cui poggiava la confederalità e il legislatore popolare lo ha segato. La sua riscrittura pertanto aveva perlomeno la portata di una premonizione del calo del tasso di universalità caratteristica del movimento sindacale italiano. “Il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando”, aveva annunciato Giacomo Brodolini, “si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica alla vita associativa sindacale e alla formazione di tramiti democratici di comunicazione tra il sindacato e la base dei lavoratori”. Come dire: il sindacato deve smettere di considerare se stesso un rappresentante sui generis, un po’ mandatario e un po’ tutore, come deve smettere di far credere al lavoratore d’essere, nei rapporti con lui, un rappresentato sui generis. Un po’ capace e un po’ no. Un minorenne col complesso di Peter Pan. Infatti, lo Statuto è la legge delle due cittadinanze nei luoghi di lavoro: quella del sindacato e quella del lavoratore in quanto tale. Allo Statuto, però, il miracolo non è riuscito; un po’ perché la maggiore rappresentatività premiata dallo Statuto fa del sindacato un aliscafo sospeso su un cuscino d’aria che può sgonfiarsi più o meno bruscamente e un po’ perché lo statuto “si preoccupa della garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell’impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentanti di fronte ai lavoratori” 11 , iscritti e non: ossia, di fronte agli stessi lavoratori cui spetta – a norma dello Statuto – l’iniziativa di istituire rappresentanze sindacali aziendali.
Non che l’additivo della maggiore rappresentatività sindacale sia di per sé privo di effettività; al contrario: proprio perché deve farne il pieno in ogni istante, è a rischio di volatilizzarsi. Lo ha riconosciuto anche la Consulta che più ci aveva creduto. Infatti, pur avendo pensato per una ventina d’anni tutto il bene possibile del club delle grandi confederazioni come luogo (sono sue parole) della “sintesi tra istanze rivendicative di tipo micro-economico e di tipo macro-economico”, nel 1990 redarguisce l’establishment: l’autoregolazione privato-sociale è cosa buona e giusta; però, la legittimazione dei sindacati deve essere verificata in base a “regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato”. Sotto-traccia, ma egualmente riconoscibile, è l’irata volontà dell’Alta Corte di trattare i sindacati come una volta i padri di famiglia trattavano i figli indisciplinati: gli si toglievano le chiavi di casa perché rientravano tardi la sera.
Più ruvido e spicciativo, ovviamente, è stato il legislatore popolare che nel 1995 ha riscritto l’articolo 19 dello Statuto. Da questo istante, il diritto di cittadinanza in azienda è riconosciuto sempre e soltanto al sindacato firmatario del contratto collettivo applicato nell’azienda. Come dire: la soglia della rappresentatività del sindacato autorizzato a parcheggiarsi nella normativa promozionale si abbassa al livello della singola azienda e la sua effettività è documentata dalla sottoscrizione del contratto collettivo che vi si applica – irrilevante essendo che sia l’unico contratto che il sindacato ha potuto o voluto stipulare e il contratto sia applicato in una sola azienda.
Nella sua versione originaria, l’articolo 19 era figlio dell’idea che, in Italia, quella sindacale sia una storia di confederazioni di cui il legislatore statutario neanche si sognava che si potesse mettere in discussione la rappresentatività. Anzi, giudicò superfluo subordinarne il riconoscimento a verifiche condotte con criteri oggettivi e trasparenti. Esagerava, però: sancire che la maggiore rappresentatività delle confederazioni s’irradiasse ipso facto a tutte le sue federazioni nazionali e provinciali vuol dire formulare una presunzione fondata su un’altra presunzione e in base ad essa accordare i vantaggi e i privilegi previsti dal titolo III dello Statuto. Si sarebbe dovuto nutrire qualche dubbio sull’ammissibilità di un quesito referendario che ha l’effetto di un defoliante spalmato sull’intera normativa di cui fa parte integrante il frammento normativo preso di mira. Analogamente, si sarebbe dovuto formare, specialmente tra le dirigenze confederali, un più compatto schieramento circa il giudizio sul correttivo introdotto dalla consultazione popolare e adottare adeguate contro-misure. Insomma, avrebbero dovuto capire al volo che è insensato curare il mal di testa con la decapitazione.
Il nuovo articolo 19 diverge due volte dall’indirizzo politico-culturale interiorizzato dallo Statuto. Una prima volta, perché il sostegno legale olim concesso ai sindacati confederali spetta a qualunque associazione sindacale in qualità di agente contrattuale che gestisce interessi concreti e specifici, circoscritti al campo di applicazione del contratto collettivo, per piccolo che possa essere. Una seconda volta, perché la selezione del sindacato con visto d’ingresso nella zona del privilegio legale diventa una vicenda su cui interferisce necessariamente anche la controparte nella misura in cui è libera di scegliere i suoi interlocutori contrattuali. Nell’immediato, invece, la criticità della divaricazione tra legislatore popolare e legislatore statutario è colta solo parzialmente. Il che, del resto, non sorprende, perché l’essenza dei testi legislativi quasi mai si coglie nelle parole di cui si compongono. La vera essenza sta oltre la dizione testuale: sta nell’accoglienza ambientale che riceveranno. Perciò, non è che un segno dei tempi il prevalere per un certo periodo di una lettura riduttiva della plateale divaricazione delle scelte legislative. Resta infatti nell’ombra la circostanza che, modificando oggetto e motivazione dell’ottica promozionale adottata dallo statuto nel 1970, a distanza di un quarto di secolo il legislatore popolare ha interrato il seme del protagonismo della contrattazione che nel 2011 il legislatore definirà, con salottiera leziosaggine, “di prossimità”. Vero è che non si erano ancora formati i presupposti per ipotizzare che il livello negoziale superiore fosse esposto al rischio di fare la fine del maschio dell’ape regina – il quale, avvenuta la fecondazione, muore. Tuttavia, è probabile che frange minoritarie dell’elettorato che approvò la versione dell’articolo 19 proposta dai referendari fossero al corrente tanto dell’esistenza di un’opinione (in dottrina e giurisprudenza) permissiva di deroghe negoziate in azienda anche se non previste dal contratto nazionale quanto delle reticenze, dei ritardi e degli ammiccamenti con cui le maggiori organizzazioni sindacali si misuravano con la medesima. Infine, non innesca più di qualche scaramuccia la possibilità che il nuovo articolo 19 finisca per riaprire spazi al sindacalismo aziendale. Là per là non solo c’è chi la nega o la irride, ma persino gli interpreti che non la minimizzano non danno alcun peso all’eventualità che il rischio possa venire da comportamenti diversi da quelli colpiti dal divieto del sindacalismo di comodo (articolo 17 dello Statuto) e dunque in sé legittimi, come possono essere quelli ispirati da divergenze insorte tra sindacati sul loro ruolo in una società che cambia o sulla funzione ultima del diritto del lavoro che alcuni di loro vorrebbero ancillare ai processi di cambiamento, dando per scontata l’assenza di valide alternative.
Come dire che la resistenza ad attuare per via legislativa il progetto costituzionale ha la granitica saldezza dell’istinto di auto-conservazione dei gruppi d’interesse. Il fatto è che l’attuazione dell’articolo 39 sottrarrebbe di colpo dal caveau della privatizzazione delle regole del gioco la vera riserva aurea della medesima: la legittimazione a contrattare del sindacato dipenderebbe non più dalla volontà degli altri agenti contrattuali, a cominciare dalla controparte, ma soltanto dal perfezionarsi dell’iter della “registrazione” e la forza contrattuale del sindacato “registrato” si misura in rapporto al numero degli iscritti. Viceversa, il sistema contrattuale organizzato dagli attori sociali coi mezzi di cui dispongono è alternativo a quello progettato dai padri costituenti perché si regge sul principio del mutuo riconoscimento in base al quale i partner sono liberi di scegliersi reciprocamente: come l’imprenditore tratta con chi gli pare, così ogni sindacato si allea con quello che gli conviene di più e, se può, sgambetta quello che gli dà fastidio. Un principio del genere, che presuppone una libertà d’azione sconfinante nella discrezionalità, esula, e anzi è espulso ab origine, dal modello di contrattazione collettiva ex articolo 39. Qui, la composizione della delegazione sindacale trattante è precostituita, vincolata e necessariamente unitaria. Prende le sue decisioni sulla base di regole sovra-ordinate che ne fanno un “mini-parlamento” dove i sindacati contano in proporzione al quantum accertato della propria consistenza associativa.
Un nuovo inizio
Per quanto sommaria, l’analisi dell’impatto dell’approccio promozionale del legislatore statutario sull’esperienza sindacale conferma che la consuetudine delle parti sociali di stare fuori della costituzione senza, per ciò stesso, mettersi contro non ha subito sostanziali modifiche. D’altronde, non era certamente questo il proposito del legislatore statutario. A lui premeva anzitutto proteggere e sostenere la crescita spontanea di corpi intermedi della società che stavano attraversando la migliore delle stagioni. Di sicuro, non era al centro dei suoi interessi costituzionalizzare il diritto sindacale. Però, l’articolo 8 della legge 148/2011 – dal quale lo scrivente ha preso le mosse – è la prova più convincente che proprio il talento acrobatico di cui il sindacato ha dimostrato di saper disporre può condurre a risultati indesiderabili. Un giorno si saprà quel che sta succedendo in periferia con la complicità delle vittime più inermi nel mezzo dell’emergenza economica invocata a sostegno del provvedimento legislativo – un’emergenza che non finisce mai. Intanto, è indiscutibile che, astenendosi dal disinquinare il sistema delle fonti di produzione delle regole del lavoro, tutti i governi che si sono avvicendati nell’arco degli ultimi anni abbiano trasmesso un messaggio di questo tenore: la giuridificazione del primato dell’autonomia dispositiva dei privati nel sistema delle fonti regolative del rapporto di lavoro non equivale affatto alla criminale vigliaccheria dell’avvelenamento dei pozzi che effettuano gli eserciti occupanti prima dell’evacuazione. Tutt’al contrario, è un’opportunità che spetta ai sindacati
mettere ”responsabilmente” a frutto.
Se ciò non è accaduto, contrariamente a pessimistiche previsioni, è anche perché nel frattempo gli sviluppi del diritto del lavoro hanno soddisfatto in misura adeguata le aspettative inespresse degli autori dell’articolo 8 nella misura in cui hanno permesso il restauro dell’asimmetria che caratterizza storicamente il rapporto di lavoro. Non che l’articolo 18 l’avesse rimossa. In realtà, non poteva né nella sua versione originaria né a fortiori in quelle rimaneggiate successivamente. L’istituto della reintegra era rimasto; ma, come in precedenza, la stabilità del rapporto di lavoro era il più delle volte più immaginaria che reale. Ad ogni modo, è innegabile che la deterrenza della reintegra è in grado di procurare alla parte debole del rapporto di lavoro il margine di sicurezza di cui ha necessità. Come è noto, invece, il legislatore ha finito per cedere alla tentazione di ripristinare una disciplina qualitativamente identica a quella prevista dalla legge del 1966 che revocò la licenza di licenziare concessa dal Signore cent’anni prima. In futuro, gli assunti con contratto a tempo indeterminato ”a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” fruiranno, in caso di licenziamento illegittimo, di una tutela d’intensità sensibilmente inferiore a quella prevista da ciò che resta dell’articolo 18 nella pasticciata versione che ne ha offerto la legge Monti-Fornero. Non che la protezione da quest’ultimo assicurata sia stata tolta a chi ce l’aveva. Semplicemente, ha i giorni contati. Si estinguerà un poco alla volta, via via che i (milioni di) lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 2015, cesseranno per qualsiasi motivo la propria attività e saranno rimpiazzati da lavoratori assunti con quello che il governo scommette sarà il contratto standard dell’avvenire; anche se, nell’eventualità che il governo vinca la scommessa, bisognerà decidersi di aggiustare il nomen iuris e, per rispetto della lingua italiana e degli italiani, accontentarsi di ribattezzarlo “contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Punto.
Insomma, trasformato in una norma ad personam, l’articolo 18 scomparirà dall’ordinamento senza necessità di abrogarlo espressamente. Il che, peraltro, è meno stupefacente di quanto possa apparire: il fatto è che, per eliminare una norma il cui pathos sapeva ancora parlare al cuore delle folle anche nella versione maltrattata nel 2012, ci voleva proprio la furbizia di farlo di nascosto e senza dirlo apertamente. La deriva in atto, tuttavia, incontra un limite insuperabile e da qui dovrà ripartire un nuovo inizio. Per quanto stravolto e mutilato, superato e deformato, è lo stesso Statuto che ci incoraggia ad annunciarlo. In effetti, col chiaro intento di diffondere la consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro sulla vita delle persone eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto tra privati, lo Statuto regola l’esercizio di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino e ne sancisce la non-espropriabilità anche nel luogo di lavoro. Infatti, vieta al datore di lavoro di perquisirlo, di impadronirsi dei suoi stili di vita e dei suoi stessi pensieri, di discriminarlo per qualunque motivo ed anche di punirlo se non con modalità capaci di incivilire un primitivismo come il potere disciplinare la cui disciplina autorizza il cumulo in un medesimo soggetto dei ruoli di accusatore, giudice e parte lesa. Come dire che lo Statuto ha declinato nell’ambito del rapporto instaurato dal contratto di lavoro il principio costitutivo della società contemporanea che fa del lavoro il passaporto per quella che i sociologi definirono industrial citizenship; e a me piace pensare che si parlasse di cittadinanza industriale solamente perché odorava di petrolio, vapore di macchine, sudore.
Non a caso, lo Statuto chiude un biennio di alta conflittualità sociale a causa dell’inatteso protagonismo operaio e il suo referente è la fabbrica fordista. Ciononostante, la vitalità dello Statuto non è legata ad un modo di produrre storicamente determinato. E ciò per la semplice (ma decisiva) ragione che il problema dell’esigibilità dei diritti di cittadinanza nei confronti del datore di lavoro si pone indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio dei modelli dominanti di produzione e organizzazione del lavoro. È vero soltanto però che il fordismo simboleggiava la fragilità dei diritti di libertà e dignità umana e anzi costituisse il paradigma della loro vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa. Ascrivibile allo Statuto insomma è il merito di seppellire la vulgata a stregua della quale il lavoro avrebbe chiesto di entrare nella storia giuridica unicamente per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie logico-concettuali del diritto dei contratti e delle obbligazioni. Infatti, mentre la cultura giuridica del Novecento – specialmente del Novecento italiano – fa del contratto di lavoro la collinetta che preclude al diritto di vedere quel che c’è dietro e tenerne conto, lo Statuto riconosce al lavoratore più di ciò che può dargli un contratto a prestazioni corrispettive. Molto di più ed è quanto basta per riallacciare il filo di un discorso interrotto sulla necessità di imprimere una torsione all’evoluzione del diritto del lavoro: non più polarizzata sullo scambio di utilità economiche e non più percorsa dalla sola esigenza di disciplinare i comportamenti dell’homo faber in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato, ma attenta ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il medesimo soggetto è portatore. Non era mai successo nella storia del lavoro che il suo diritto pretendesse di ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore (di lavoro) sul cittadino. Non poteva succedere, perché “la condizione di cittadino”, come ha scritto Ulrich Beck, “derivava da quella di lavoratore”. Stando così le cose, è facile comprendere perché il diritto che dal lavoro ha preso il nome si sia venuto edificando sul postulato che lo statuto mette in discussione.
Nato in un’epoca nella quale lo stato occupazional-professionale acquisibile per contratto era prioritaria e totalizzante, il diritto del lavoro ha negato per un lungo tratto del suo cammino che potesse stabilirsi una correlazione biunivoca tra lo stato occupazional-professionale acquisibile per contratto e lo status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico: questo era il posterius e quello il prius. Ha acquistato perciò la durezza dei dogmi l’idea che la loro coesistenza comporta necessariamente il sacrificio dello status di cittadinanza. Un’idea che, viceversa, non era che lo stadio iniziale di un’evoluzione lontana dal suo sbocco conclusivo. Mantenuta in vita e riproposta dopo l’avvento del costituzionalismo democratico del’età contemporanea suona come un’eresia giuridica. Pertanto, stabilendo il divieto di espropriazione nel luogo di lavoro dei diritti civili e politici derivanti dallo status di cittadinanza, lo Statuto formula il principio per cui l’homme situé – come direbbe Alain Supiot – non può più sovrastare il citoyen e rubargli spazio. Bisogna riconoscere che si tratta della punta d’un iceberg d’inusitata dimensione e che spetta all’interprete farne la ratio giuridico-politica di una rivisitazione costituzionalmente orientata di vasta, e anzi illimitata, area. Illimitata perché, cresciuto avvitandosi su se stesso, al diritto del lavoro è stata tolta la soddisfazione di godersi in pace la stagione della maturità. Una maturità che aveva raggiunto allorché aveva potuto esibire di sé l’immagine di un sistema normativo che, ribadita la marginalità del lavoro autonomo, esprimeva una pronunciata ostilità nei confronti della precarietà a vantaggio della stabilità, della flessibilità a vantaggio della rigidità, dell’individuale a vantaggio del collettivo. In questa maniera, con passabile coerenza era riuscito ad ispirarsi al principio generale per cui ogni contratto tipico ha la sua disciplina tipica. Infatti, il contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, sottoposto a regole tendenzialmente uniformi e sindacalmente protetto, veniva considerato il prototipo delle discipline dei rapporti contrattuali in cui si effettua lo scambio tra lavoro e retribuzione. In breve, era diventato la stella polare del diritto del lavoro legificato, giurisprudenziale e negoziato in sede sindacale.
È stato bello, ma è durato poco.
Infatti, il diritto che dal lavoro prende il nome ha smesso in fretta di prodigarsi per la soppressione di uno dei termini delle antitesi a beneficio dell’altro, ossia per la dominanza dei valori evocati dal termine privilegiato (subordinazione, stabilità, rigidità, collettivo). Il fatto è che i suoi stessi concetti-base, subordinazione e autonomia, si erano logorati, perdendo la nettezza che ne generava l’antinomia e – saltati, uno ad uno, i restanti riferimenti culturali che ne determinavano l’identità – ha visto allargarsi a dismisura l’area dei rapporti di lavoro d’incerta qualificazione giuridica. Non che si fosse smarrita la nozione di bianco e di nero. Il fatto è che ha prevalso il grigio e il diritto del lavoro andava ripensato per triadi. Persino subordinazione e autonomia compongono una diade che, se una volta rinviava a totalità contrapposte tendenti ad elidersi, con crescente frequenza si richiamano a situazioni che si collocano lungo una medesima linea continua rappresentabili con la formula “né né”, anziché “aut aut”. Segno che si è venuto formando uno spazio intermedio ricco di sfumature e la sua espansione è all’origine dell’obsolescenza di ogni dicotomia. Del resto, impegnando la Repubblica ad intervenire nelle situazioni soggettive di inferiorità e svantaggio, di debolezza e diseguaglianza comunque e dovunque si manifestino (articolo 3, comma 2) – e, più specificatamente, impegnando la Repubblica a tutelare anche il lavoro prestato in forme e in condizioni diverse da quelle del lavoro dipendente (articolo 35) – nello stesso momento in cui ne riaffermano la centralità i costituenti dimostravano come l’amore per la specie possa non far perdere di
vista il genere.
Con ineguagliabile eleganza, Massimo D’Antona scriverà che i costituenti guardavano il lavoro, “più che come fattispecie contrattuale, come un segno linguistico riassuntivo dei fenomeni d’integrazione del lavoro umano nei processi produttivi non solo nel quadro di un contratto tipico, ma nell’intera gamma delle relazioni giuridiche entro le quali si realizzano”. Come dire: l’opinione che fa della summa divisio di barassiana memoria tra contratto di lavoro subordinato e contratto di lavoro autonomo uno steccato invalicabile sfida la direttiva costituzionale con esiti irragionevolmente antitetici: o si ottiene tutto o si resta a mani vuote. A ben vedere, la consuetudine giurisprudenziale (ma anche dottrinale) di venerare la summa divisio ha molto a che fare con quella instaurata in materia di autotutela collettiva in epoca anteriore alla liberalizzante giurisprudenza della Consulta. Infatti, come l’articolo 40 della Costituzione è stato interpretato, fino agli anni Sessanta inoltrati del XX secolo, alla luce del codice penale che criminalizzava tutte le forme di sciopero, così la presunta intangibilità della dicotomia gius-privatistica contratto di lavoro/contratto d’opera conduce al rovesciamento dell’ordine gerarchico del sistema delle fonti di produzione normativa.
Per saperne di più: Giuristi del lavoro nel Novecento italiano, Umberto Romagnoli, Ediesse