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La Flai Cgil e l'Osservatorio Rizzotto fotografano la situazione dei lavoratori dell’agroalimentare nel suo quinto rapporto "Agromafie e caporalato", presentato il 16 ottobre a Roma. E racconta anche le vicende di vittime e carnefici dello sfruttamento dei braccianti. Eccone una selezione.
Sicilia: io, caporale
“Sì, sono un caporale. Sono uno di quelli che vengono sempre criticati perché portano le persone a lavorare e si fanno pagare. I datori di lavoro della zona mi chiamano, perché non sanno come fare, e io soddisfo le loro necessità”. Sorin ha 50 anni, ha studiato economia per alcuni anni all'Università di Bucarest, ma alla fine degli anni ‘90 ha deciso di vivere in Italia. “Il caporale è un bracciante svelto - racconta -, che ha esperienza ed è apprezzato dalla comunità. Perché trova lavoro a tutti, senza distinzioni. Ma non tutti sono come me. Ci sono caporali scorretti, magari violenti, che pensano solo a se stessi e al denaro. Non sono intermediari, ma delinquenti. Spesso lo diventano perché lavorano con imprenditori che fanno un prezzo troppo basso. E allora si sentono sopra la legge. “Se il caporale nasconde il suo compenso e paga male gli operai, la squadra si regge solo con il ricatto, la truffa e l’inganno – continua Sorin -. L'importante è lavorare. Se derubi, truffi o fai restare senza soldi gli operai, loro non ti cercheranno più. Ti cercheranno solo le persone più fragili, le più vulnerabili. E non è un buon modo di lavorare. Perché a me servono persone che sanno fare il mestiere, che hanno esperienza. Questa è la mia filosofia. Questo è il motivo per cui non vengo arrestato”. “Io faccio anche un lavoro da mediatore culturale – conclude -. Porto persone ogni mattina, e parlo con il datore e gli dico come comunicare con i braccianti. Ho una fila di persone che vogliono lavorare con me, e anche una fila di imprenditori che si fidano. Qui a Canicattì ci sono caporali molto duri. Li conosco, certo, ma li tengo tutti a distanza. Li conoscono anche i vigili urbani. Ma, non so perché, sono intoccabili. E questa cosa proprio non la capirò mai”.
Campania: due cuori e un container
F. ha lasciato l'Ucraina dieci anni fa. E’ entrato in Italia irregolarmente per raggiungere la moglie ad Aversa. Dopo otto anni, con l'assistenza dello sportello di NeroenonSolo!, riesce a regolarizzare la sua posizione tramite ricongiungimento familiare. Per 4 anni vive, insieme con la moglie, in un umido e malsano container presso l'azienda del suo datore di lavoro. Lavora a nero come custode di uno stabilimento agricolo. In realtà, viene chiamato a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche con minacce ed invettive, per scaricare la merce dai camion che arrivavano in deposito. La moglie intanto cucina per gli altri operai e tiene pulita l'azienda. Il salario per entrambi non supera i 1.000 euro mensili, e i pagamenti non arrivano mai. Una notte d’inverno, mentre scarica la merce da un camion F. è colto da un infarto. Viene operato d'urgenza ed è costretto a lasciare sia il lavoro che il container. Tutto succede in fretta, sotto le minacce del padrone. F. ha appena il tempo per recuperare le sue poche cose. Ora, a sessantuno anni, è disoccupato, e ha il cuore malato. S'arrangia con qualche giornata in campagna. Convive con la moglie in un basso affittato per 100 euro al mese. Lei porta avanti la famiglia lavorando come bracciante, arrampicandosi sulla scala all'età di cinquantasette anni. Dai pochi soldi che racimolano insieme ogni mese, mettono via una parte e la mandano in Ucraina, per aiutare i nipotini ad andare a scuola.
Puglia, stipati accanto alla porcilaia
A una donna rumena che già lavorava presso un’azienda alle porte di Taranto viene chiesto di reclutare 6 operai direttamente dalla Romania. A breve inizierà la raccolta e servono braccia in più. Gli operai partono con un volo Bucarest-Brindisi, e arrivano in azienda. Il contratto, in maniera informale, prevede un salario di 28 euro al giorno, più vitto e alloggio a carico del datore di lavoro. All’arrivo vengono stipati con altri in una casa di campagna con 4 stanze con 25 letti a castello accanto a una porcilaia. L’acqua per bere e per lavarsi è quella di un pozzo. Il lavoro si snoda per 15 ore al giorno, ma la paga non arriva mai. Il padrone allunga acconti di 50 euro alla settimana, ma gli operai ancora non sanno se sono stati assunti o meno. Quando chiedono del contratto le risposte sono sempre vaghe, e il padrone continua a trattenere i loro passaporti. Per alcuni mesi i salari sono costanti, ma una parte dei soldi devono essere restituiti, in contanti. Il caposquadra, anche lui rumeno, è sostanzialmente un caporale, e un giorno picchia due braccianti, una donna e un uomo. Avevano minacciato di andare a parlare col sindacato. Dalla denuncia è scattato l’ordine di arresto per il padrone e per il caporale. Gli altri braccianti non hanno sottoscritto la denuncia, avevano troppa paura di essere licenziati.
Toscana, come ammalarsi di lavoro
H.H. è nato in Costa d’Avorio 27 anni fa. Arrivato a Lampedusa nel 2014, ed è stato ospitato in un Centro d'accoglienza di Livorno. H.H, ha lavorato per circa due anni in una azienda agricola. A metà del 2019 si presenta allo Sportello Satis per vittime di tratta e di sfruttamento. Dichiara di avere il permesso umanitario in scadenza, per colpa dei “Decreti Salvini”, e ha paura di perdere il posto. Il suo datore non gli paga lo stipendio da mesi, se non con acconti mensili di 300-400 euro. H.H. deve ricevere ancora 5.000 euro, ma quando li ha chiesti è stato minacciato. Nel leggere le buste paga, l’operatore dello sportello si accorge che le giornate registrate sono molto di meno di quelle dichiarate. Quello che prende corrisponde a circa un terzo delle giornate lavorate. H.H. fatica 7 giorni su 7, con una media di 12 ore al giorno in inverno, 14 in estate. Se si ferma, viene minacciato di licenziamento per scarsa produttività. E' troppo magro, accusa vertigini, ha dolori alla colonna vertebrale, problemi digestivi, dolori allo stomaco, ha i piedi gonfi. Secondo il referto medico s'è ammalato a causa degli altissimi ritmi di lavoro. H. H., resta in ospedale una settimana, poi porta al datore di lavoro il certificato dell’ospedale, ma lui rifiuta di pagare la malattia e lo minaccia ancora. Poi viene licenziato per assenza ingiustificata. H.H. ha inoltrato denuncia per sfruttamento e riduzione in schiavitù.
Veneto, import/export dello sfruttamento
M.M. è un cittadino indiano di 32 anni, è il più grande dei suoi 5 fratelli. La famiglia ha bisogno di soldi, e lui espatria. Arriva in Italia nel 2016 e si stabilisce a Vicenza, dove viene assunto da un'azienda che fa import/export di prodotti agricoli con Londra. M.M. deve occuparsi dell'intero ciclo produttivo: dalla semina alla raccolta, senza mezzi e attrezzature. Il suo datore gli dà una bicicletta e gli paga una stanza a casa di un connazionale. Ogni mattina M.M. percorre circa 20 km in bicicletta, inizia a lavorare alle 5 del mattino per fermarsi alle 19. M.M. è sfruttato e asservito al suo datore, mangia male, è debilitato fisicamente e psicologicamente. Chiede altri braccianti per aiutarlo, e chiede più soldi. Le risposte sono minacciose. Alla fine, M.M. arriva in Flai Cgil: in busta paga risultano soltanto 10 giornate registrate, con un contratto di lavoro sottoscritto tre anni prima. Fatti i conteggi, è partita una denuncia circostanziata ai Carabinieri. Qualche settimana dopo aver sporto la denuncia, viene malmenato da due sconosciuti e duramente minacciato. Attualmente, però, M.M. sta bene, studia agronomia all’Università in un'altra città italiana, i suoi aguzzini sono in carcere per sfruttamento lavorativo e riduzione in schiavitù.