Se ogni giorno che passa sembra sempre più incerto l’esito dell’Election day del 5 novembre, lo si deve anche allo stato confusionale in cui pare essere precipitata la democrazia americana, aggrovigliatasi su sé stessa senza imminenti vie d’uscita all’orizzonte, indipendentemente da chi uscirà vincitore nella sfida tra Donald Trump e Kamala Harris. Ma come è possibile che gli Stati Uniti siano arrivati a un punto tale di radicalismo, innalzando progressivamente il livello dello scontro tra opposte visioni della nazione?

Per avere un quadro più chiaro della situazione attuale occorre leggere l’agile e documentato volume di Mattia Diletti, ricercatore del Dipartimento di comunicazione sociale e ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, dal titolo Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI Secolo, (Treccani, pp. 126, euro 16). Un libro che arriva al momento giusto, analizzando con assoluta competenza i motivi di questo “scontro costante” che ormai da qualche anno caratterizza l’azione politica e sociale negli Stati Uniti d’America. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.

Il libro è incentrato sul tema della polarizzazione politica e sociale degli ultimi anni, negli Stati Uniti e non solo. Possiamo descrivere brevemente di cosa si tratta?
L’America ha mostrato il limite della polarizzazione all’interno della democrazia liberale. Nelle elezioni del 2020 è mancato un elemento-chiave (e non sappiamo cosa accadrà nel 2024): il riconoscimento della vittoria dell’avversario, la transizione pacifica dei poteri, qualcosa che noi diamo per scontato nella democrazia occidentale. Il sistema di polarizzazione viene utilizzato nel mercato della politica come sistema strategico, soprattutto nel campo conservatore. Nella crisi americana c’è una domanda di conduzione, e una delegittimazione delle istituzioni, legate a paure derivanti da economia, fattori sociali, questioni climatiche: un mix che favorisce l’emersione di queste leadership populiste. La polarizzazione, a sua volta, è un mix di tutto questo, di questioni sociali, culturali, politiche, territoriali. C’è chi ha capito che serrare le fila e creare un esercito di polarizzati può aiutare il consenso, e mantenerlo.

Quali sono i motivi principali che hanno determinato questa radicalizzazione del confronto politico negli Usa?
Importante è non credere all’idea che tutto sia nato con l’avvento di Donald Trump, che ci sia un dominus della polarizzazione. Trump è un fatto contingente, perché il sistema di polarizzazione è una scelta dei repubblicani che parte dagli anni ’90. Su questo c’è un libro di Nicole Hemmer, Partisans, in cui si dice sostanzialmente come in quel periodo si pensasse che la società americana potesse essere orientata a dare consenso ai democratici per motivi sociali, demografici, culturali, e altro. Da qui la polarizzazione dall’alto dei repubblicani, una strategia per arginare l’ascesa di Bill Clinton, per serrare le fila del voto repubblicano e impostare una controffensiva.

Nel terzo capitolo del volume si analizzano infatti gli ultimi trent’anni di politica statunitense attraverso le figure dello stesso Clinton, Bush Junior e Barack Obama.
Sì. La storia dell’impeachment contro Clinton, finita in un nulla di fatto, parte proprio da lì, dai leader repubblicani orientati verso la polarizzazione. Ma la cosa interessante è che l’esplosione di questo tipo di sistema sia avvenuto dopo il biennio 2007-2008, quando saltano dei tappi.

Quali?
In primis, naturalmente, quello che porta alla crisi economico-finanziaria, e dunque all’elezione di Barack Obama, con il conseguente ritorno di politiche redistributive anche se di carattere blando, come la riforma sanitaria, che però produce reazioni quali la costituzione del Tea Party, che si oppone a questa scelta politica con violenza verbale e aggressività, forte dell’assunto che non si devono mai mettere le mani nelle tasche degli americani, perché il rischio è l’avanzare del socialismo. Un elemento subconscio, questo, dell’intera società americana. Poi c’è la cosiddetta “questione bianca”.

Ovvero?
Il fatto che l’elezione di un presidente nero colpisce in particolare l’elettorato più anziano, e bianco, e questo apre la strada ai polarizzatori, politici ed economici, ancora più aggressivi che negli anni ’90. Polarizzatori che però, con l’arrivo di Trump, è come se avessero seminato vento e raccolto tempesta; perché se guardiamo alla sorte dei leader repubblicani legati al Tea Party negli anni ’10 di questo secolo, sono stati tutti spazzati via dall’avvento di Trump, che ha approfittato di questo passaggio per trasformare il partito repubblicano, in senso illiberale.

A questo proposito il libro si sofferma anche sull’ascesa di Alexandria Ocasio-Cortez, i suoi rapporti con i sindacati, la sua presenza per certi versi scomoda. Potrebbe avere un ruolo in caso di vittoria di Kamala Harris?
Forse sì, ma si deve sottolineare che in caso di vittoria di Kamala Harris si tratterebbe ancora di un “piano B” rispetto a una identità nuova del Partito democratico. Biden era già un “piano B”, un presidente eletto in un momento di emergenza e di opposizione a Trump, divenuto tale anche per la capacità di dialogo con l’ala radicale del partito e con quella di vecchio corso, che dunque al tempo stesso tranquillizzava gli elettori e una componente interna dei democratici. In questo senso la candidatura di Harris è inserita nello stesso paradigma, politicamente ambiguo, all’interno del quale gli ultimi dati mostrano che anche l’elettorato democratico sente bisogno di protezione, una domanda molto forte che arriva dalle minoranze, dai giovani, da tutti quelli maggiormente colpiti dalle difficoltà economiche.

Nell’ultimo capitolo si approfondisce la questione sempre complessa dell’identità, e di quelle che vengono definite “guerre culturali”. Quanto stanno cambiando il volto della democrazia americana?
Di certo si sono accelerati dei processi, anche se, come ha scritto Michael Kazin, dalla fine degli anni ’60 a oggi in fondo si combatte la stessa guerra di posizione culturale: le donne, i diritti delle minoranze che si intrecciano con la questione economica e sociale, la gestione degli investimenti pubblici. Possiamo dire che oggi il confronto è tra un’ America immaginaria, che è quella del passato, bianca e ordinata, senza movimenti “riottosi”, e un’America che invece vuole che gli Stati Uniti rappresentino il pluralismo molto articolato oggi presente nella società americana, anche se disordinato, confusionario. La divisione è tra il vecchio sistema sociale dominante, e una società che i demografi ci dicono trasformerà quella americana in multirazziale nel giro di pochi anni, dove i bianchi saranno la minoranza più grande, non la maggioranza del Paese.

Nell’introduzione si dichiara di aver volutamente pubblicato il libro prima del voto, proprio per offrire un ragionamento non condizionato dall’imminente elezione del prossimo presidente. Possiamo comunque azzardare una previsione?
Penso che vincerà Trump, ma per un motivo di pura logica elettorale, in un meccanismo dove la vittoria dipende da quei sei-sette Stati in bilico. Al momento non siamo in grado di valutare due aspetti: quanto il generale giudizio negativo sulla gestione Biden-Harris possa influire sulla partita, né quanto influiranno quei fattori che noi vediamo come segmenti della società, in realtà più mobilitati di quanto si possa credere. Tutto si deciderà per micro-vicende territoriali, il vero macigno di un sistema elettorale antiquato, che può permettere a un partito come quello repubblicano, strutturalmente minoranza negli ultimi trent’anni (tranne che nel 2004), di vincere per poche migliaia di voti, ottenuti in un fazzoletto di terra.