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Mario Desiati è tra gli scrittori più apprezzati nel panorama letterario italiano, e il più votato nella fresca cinquina (anche se per la prima volta i libri finalisti saranno sette) della LXXVI edizione del Premio Strega con Spatriati (Einaudi, p. 277, euro 20). Autore di romanzi che sin dagli esordi hanno raccolto e mantenuto l'interesse di critica e lettori, Desiati coglie sempre il segno dei tempi, quando ci accompagna nelle spire più intime dei suoi personaggi, o se si ferma per descrivere il sistema sociale entro cui viviamo, dal mondo del lavoro precario alla precarietà della vita, parafrasando uno tra i suoi libri più conosciuti. Lo abbiamo raggiunto per un'intervista.
Come nasce e in che modo è stata elaborata la scrittura di “Spatriati”?
Si tratta di un libro che posso dire di aver scritto e riscritto, ma da sempre lavoro molto con le stesure. Ho iniziato Spatriati nel 2015, quando mi sono trasferito a Berlino, scrivendo sino alla fine del 2019. Poi l'ho ripreso con l’editore per tutto il 2020, e anche durante la seconda pandemia. Ne è uscita fuori una versione più asciutta, per certi versi più delirante.
La sensazione è che il libro, in particolare i due protagonisti, susciti un forte senso di immedesimazione tra i lettori. Ti aspettavi una risposta di questo tipo?
Non so se le cose stiano proprio così, e posso dire che da lettore preferisco non riconoscermi troppo con storie e personaggi. Poi, chiaramente, se tratti un aspetto della società contemporanea così marcato, cioè il fatto di non sentirsi a fuoco in nessun posto, in nessuna famiglia sociale, nessun paese o condizione esistenziale che invece esiste da secoli in maniera definita e precisa, l’immedesimazione può scattare facilmente. Così si può creare una patria non solo geografica, composta di umori sociali ed esistenziali, attraverso cui può avvenire un processo di autoriconoscimento. C’è chi lo vive, Come Claudia, o chi come Francesco fatica ad accettare questo suo senso di irregolarità, verso norme che contravvieni per esser te stesso e vivere meglio.
Sin dalle prime pagine viene spiegato bene, ma puoi darci la tua definizione di “Spatriati”?
Sapevo da subito che il libro si sarebbe chiamato così, lo sentivo già da quando avevo ancora le carte per non essere uno “spatriato”. La fortuna è anche che sia uscito al momento giusto, raccogliendo un fenomeno sociale di questo periodo storico, che però c’è sempre stato: l’irregolarità c’è sempre stata. Forse la differenza sta nel fatto che prima, almeno fino a un paio di secoli fa, non potevi parlarne e scriverne in un certo modo.
Vorrei fare un passo indietro, per parlare di due tuoi romanzi che hanno a che fare con il mondo del lavoro e con le sue varie conseguenze, spesso tragiche. Mi riferisco a “Vita precaria e amore eterno” (Mondadori, 2006) e “Ternitti” (Mondadori, 2011)
Del primo possiamo dire che è nato sulle ceneri del precariato, in una fase letteraria in cui sullo stesso tema si cimentavano altri scrittori come Michela Murgia, Aldo Nove, Giorgio Falco. Parliamo comunque di una storia d’invenzione, quando nel mondo ci si divideva tra precariato e flessibilità, mentre in realtà si viveva già da anni di esperienze solo precarie, esperienze che anch’io ho vissuto molto, come molti della mia generazione in Italia. Il tema del lavoro è sempre delicato. Chi ne parla deve sapere, per questo mi riferisco a esperienze personali.
E “Ternitti”?
Ternitti è il rapporto tra pane e veleno, tra sopravvivere o morire, a partire dal paesaggio siderurgico, in ordine di migliaia di lavoratori che a Taranto erano occupati in un posto grande tre volte e mezzo la città, un progetto di complesso siderurgico tra i più importanti d’Europa. Da qui le contraddizioni in essere tra grande industria e vita, tra vita e lavoro, salute e lavoro. Più in generale ho cercato di riflettere anche sulla vocazione individuale, le proprie aspirazioni, in contrasto con la necessità di vivere, di dare cibo alla famiglia, un tema presente insieme alla guerra, le malattie, gli spostamenti: tre grandi traumi che hanno direttamente a che fare con la ricerca di un lavoro, di un'attività.
Secondo te c’è un certo ritorno, un nuovo interesse da parte della società letteraria per questi argomenti? Si ricomincia a parlare di “letteratura industriale”...
La letteratura non può non confrontarsi con tutto questo, e nella narrativa italiana è un tema importante, lo è sempre stato, nel Novecento ancor di più. D’altra parte, basterebbe sfogliare la Costituzione italiana per comprendere l’immaginario che contiene, il lavoro come orizzonte attraverso cui si è costruita la nostra democrazia. Su questo c’è sempre stata una sensibilità varia degli autori. Per me era arrivato un punto di rottura: con “Vita Precaria” nel contatto diretto con il mondo del precariato, con “Ternitti” nel contatto con la Puglia, per me terra d’origine, terra di emigrazione, ma anche terra di forte industrializzazione. Dunque sì, in Italia la narrativa italiana si pone il tema del mondo del lavoro, che è sempre rischioso, e uno scrittore lo affronta sapendo che sta entrando nel novero dei libri impegnati (Bianciardi, Volponi, faccio solo due nomi). Ci vuole anche una buona dose di coraggio. Mi viene in mente un racconto di Goffredo Parise contenuto nei “Sillabari”, credo fosse “Grazia”, nel quale si parla anche con ironia degli ingegneri. Oggi Veronica Galletta, tra le autrici che hanno scritto recentemente di letteratura industriale (anche lei nella finale a sette con "Nina sull'argine", minimum fax, ndr), parla di ingegneri con lo sguardo di una donna.
Concludiamo tornando a “Spatriati”, e al rapporto tra Claudia e Francesco, i due personaggi principali: sembra quello di un amore incompiuto, mentre alla fine ti accorgi non essere proprio così. Forse è un legame poco comune, o almeno poco raccontato.
Non sono d’accordo. Piuttosto direi che ognuno ne parla, e scrive, a modo suo. Sono circondato da persone che nella vita non cercano tanto l’anima gemella quanto una persona con cui riconoscerti, che diventi la tua patria, pur non essendo la persona con cui vivrai per sempre, ma con la quale si possono condividere momenti autentici e il tuo stesso essere autentico, anche se non ti vedi tutti i giorni. Anzi, forse riesce meglio con chi non ti è accanto ogni momento, consentendoti un respiro diverso.