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Sono tra le novità più importanti degli ultimi anni, i registi fratelli gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio. Nati a Torino nel 1978, dopo la genesi nel documentario e l'apprendistato dei primi titoli, si sono imposti nel 2011 con Sette opere di misericordia, un successo critico che li ha portati a girare vari festival - per finire con l'imprescindibile TFF, Torino Film Festival - e raccogliere premi. Cosa raccontava? La storia di Luminita, giovane clandestina romena che vive ai margini di una baraccopoli, costretta a piccoli furti dai suoi sfruttatori. La soluzione per spaccare la sua situazione arriva dall'incontro con un anziano, Antonio interpretato da Roberto Herlitzka, malato e ricoverato in ospedale. La ragazza si avvicina all'italiano per tentare di circuirlo, ma con conseguenze del tutto inattese.
Fin dall'inizio appare evidente la cifra dei fratelli: un'indagine sul reale che è documentaria, perché proprio dal documentario proviene (e spesso ritorna). Allo stesso tempo, però, il doc incrocia la finzione per indagare le contraddizioni dell'oggi: in quel caso le grandi migrazioni, la società italiana che diventa sempre più "mista", e insieme la smentita dei luoghi comuni. Per esempio l'idea che il migrante porti un "disturbo" nella comunità in cui arriva: qui il paradigmatico personaggio di Herlitzka rivela che anche gli autoctoni non sono così irreprensibili. E soprattutto in filigrana si forma lentamente l'ipotesi dell'integrazione: la vittima e il carnefice, dopo gli scambi di ruolo, lasciano sospettare che le identità diverse possano vivere insieme, siano capaci di tendersi la mano, seppure nelle rispettive ambiguità.
Se la scelta delle storie non è mai casuale, il segno particolare del cinema dei De Serio è però un altro: la costruzione stilistica. La loro narrativa non dice, non esplicita, non spiega ma preferisce mostrare: la formazione del senso nello spettatore è sempre affidata all'immagine. Occorre guardare per capire dove stiamo andando. Non stupisce allora che tornino al documentario con I ricordi del fiume (2015), un'operazione peculiare e unica nel nostro cinema. I registi trascorrono gli ultimi mesi all’interno del Platz, gigantesca baraccopoli ai margini di Torino che deve essere smantellata: filmano i loro abitanti, ci parlano, li registrano. Le immagini diventano significative oltre le parole. I migranti che vivono in questa immensa favela italiana, semplicemente facendosi vedere, sviluppano un discorso sull'abitare come forma di identità, sul loro essere qui oggi, di contrasto su una società che sceglie di sgomberarli. Che cancella la loro casa. Il film inizia con i volti e finisce con le ruspe. Nella migliore tradizione del genere è, proprio etimologicamente, un "documento": attesta gli ultimi giorni di una condizione, i visi di uomini, donne e bambini e incide cosa è successo, per consegnarlo a futura memoria.
Si arriva così a Spaccapietre. L'ultimo titolo richiama il quadro di Gustave Courbet, Gli spaccapietre (1849). È stato presentato al Festival di Venezia nella sezione Giornate degli autori, poi uscito in sala, racconta il dramma del caporalato. Lo fa partendo ancora una volta dalla realtà: la nonna dei registi è morta di fatica mentre lavorava in un campo nel 1958. Esattamente come Paola Clemente nel 2015. Alla bracciante scomparsa era già dedicato un cortometraggio di Pippo Mezzapesa, La giornata (qui il corto integrale). I fratelli la prendono come ispirazione per inscenare la parabola di Giuseppe, interpretato da Salvatore Esposito (il Genny della serie Gomorra, una sorpresa), che si ritrova disoccupato e solo con il figlio piccolo Antò.
Il protagonista entra a sua volta nell'inferno dei caporali: inizia a lavorare nei campi, assistito peraltro dal bambino, vivendo in una baraccopoli popolata principalmente da braccianti stranieri. Il racconto parte dal vero poi deraglia nel territorio dell'immaginazione e della fiaba nera, ma sempre per raccontare un cancro del contemporaneo. "Nostro nonno paterno faceva lo spaccapietre - dicono i registi -, prima di partire negli anni Sessanta per Torino e diventare operaio della Fiat. Abbiamo quindi immaginato la storia di un padre e di un figlio che fanno un percorso che, in fondo, è il nostro tentativo di recuperare l’immagine di nostra nonna mai conosciuta". Chi è lo spaccapietre nel film? Ovviamente Giuseppe, ma anche gli altri braccianti, ed è una provocazione: se lo sfruttamento è sempre lo stesso, se la condizione dei lavoratori non migliora mai, possiamo continuare a chiamarli "spaccapietre".
Ecco gli indizi ricorrenti di questo cinema: i migranti, il lavoro, lo sfruttamento. La complessità della convivenza. La stortura di una società che sgombera. Ma tutto sottinteso, da leggere dentro il quadro dell'immagine. Cinema che ricorda a tratti i grandi documentaristi dell'oggi: come il cinese Wang Bing, che seguiva i rifugiati in fuga dalla guerra in Myanmar nel suo film Ta'Ang (2016, disponibile su Mubi). I profughi di Wang sono poi così diversi dai migranti dei De Serio cacciati dalla baraccopoli? A ben vedere la strategia è la stessa; seguire i deboli, gli ultimi, stare con loro per restituirli davanti alla macchina da presa. Ed è sempre un gesto politico.